A colloquio con il cardinale prefetto Leonardo Sandri

Comunità vive
oltre l’incenso

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15 febbraio 2021

Non è una questione di icone e fumi di candele che salgono sopra riti dalle cadenze antiche. C’è la carne di Cristo spesso più ferita, per dirla con Papa Francesco, dietro il lavoro della Congregazione per le Chiese Orientali. L’orizzonte entro cui spaziano le responsabilità del dicastero annovera il mondo della Terra Santa, che intreccia la sacralità più intensa ad annosi drammi umani, l’universo delle Chiese in diaspora, la naturale compresenza nel tessuto ecclesiale di sacerdoti celibi e sposati – “poli” al centro di numerosi dibattiti in Occidente –, e tante altre peculiarità di un mosaico oggi legato al destino globale di una pandemia che non accenna a risolversi. Un mondo, spiega il cardinale Leonardo Sandri che guida la Congregazione, in cui l’unità al Vicario di Cristo «si manifesta nella sua varietà».

Fino alla riforma della Curia romana del 1967, la carica di prefetto della Congregazione era riservata al Pontefice, a riprova dell’importanza attribuita alla cura delle Chiese orientali. In che modo si esprime oggi questa sollecitudine verso le comunità dell’Oriente cristiano?

Credo ci faccia bene tornare all’immagine di pochi istanti prima della Messa di inizio pontificato di Papa Francesco, quando egli si recò a pregare all’altare della confessione della Basilica di San Pietro presso le reliquie dell’Apostolo e volle essere affiancato da tutti i Patriarchi e gli Arcivescovi Maggiori delle Chiese orientali cattoliche, per manifestare visibilmente l’unità profonda all’interno della Chiesa cattolica. La Chiesa latina è una delle Chiese sui iuris e il Papa come vescovo di Roma, pur essendo un vescovo latino, esercita la sua sollecitudine rispettando e prendendosi cura di tutte le Chiese orientali cattoliche – dal Medio Oriente all’Europa dell’Est, dall’India all’Africa –, e di tutte le comunità figlie di queste Chiese diffuse in tanti territori della diaspora nel continente americano così come in Europa, in Australia e Oceania. 

Che importanza ha la cura delle realtà della diaspora?

È un tratto della sollecitudine per le Chiese orientali dei Pontefici che, pur non rivestendo più la carica di prefetti della Congregazione, continuano a esercitare attraverso di essa la loro attenzione particolare ai fedeli orientali. Il fatto stesso che in territori a prevalenza latina – come per esempio in Europa e negli Stati Uniti – i Papi abbiano scelto di erigere eparchie o esarcati per la cura dei fedeli orientali cattolici, dice l’importanza e il profondo rispetto della loro identità e tradizione. Laddove essi vanno nel mondo costituendosi in comunità strutturate di una certa consistenza, la Sede Apostolica riconosce loro la possibilità di continuare a governarsi secondo la propria tradizione, le proprie peculiarità liturgiche, disciplinari, spirituali, prevedendo la nomina di vescovi e l’erezione di eparchie e circoscrizioni, perché essi possano continuare a vivere l’appartenenza al Signore nella Chiesa cattolica attraverso quel volto singolare della propria Chiesa di provenienza.

Questi fedeli spesso fuggono da guerre, violenze, povertà …

Sì, l’attenzione per i fedeli orientali nella cosiddetta diaspora è anche un modo particolare di vivere quella cura per la realtà dei migranti e dei rifugiati che è tanto cara al cuore di Papa Francesco. Gli orientali della diaspora sono figli di quelle popolazioni che, per sfuggire alla guerra e alla violenza o per motivi economici, sono emigrate dalle loro terre di origine e hanno costituito delle comunità per continuare a vivere la loro fede nel legame con la propria madrepatria e con la propria Chiesa di appartenenza. L’attenzione di Papa Francesco per la realtà migratoria si concretizza anche attraverso il nostro dicastero, nella cura pastorale di questi fedeli migranti, ovunque siano giunti in passato ed oggi e ovunque giungeranno anche in futuro.

Questo naturalmente non significa favorire un processo di svuotamento dei cristiani, ad esempio in Medio Oriente, che forse fa l’interesse di alcuni poteri forti internazionali, ma che invece vede il Papa in prima linea nel rivendicare il diritto dei cristiani a rimanere, a vivere e a professare la propria fede. La presenza dei cristiani in un Medio Oriente che vorremmo vedere finalmente riconciliato, senza più guerre, è un contributo fondamentale alla pacifica convivenza secondo un modello di fratellanza umana, superando schemi storici di contrapposizione o di sudditanza reciproca che hanno caratterizzato i decenni e i secoli passati in quei territori. 

Quando si parla di Chiese orientali, le prime immagini che vengono in mente sono quelle di antichi luoghi che custodiscono tesori d’arte e riti carichi di suggestione. Quali altri elementi caratterizzano l’identità specifica delle comunità ecclesiali d’Oriente?

È vero, non dobbiamo perdere la peculiarità di qualcosa di antico, di prezioso, di un tesoro di sapienza, di bellezza, di arte, di colori perché questa è l’esperienza che si vive quando si entra in una chiesa orientale ovunque nel mondo: si resta affascinati dalle preghiere, dai canti, dagli inni, dal profumo dell’incenso, dalla luce delle candele, dai paramenti …, ma tutto questo non è qualcosa che appartiene a un museo! Sono comunità vive che, con parametri diversi dai nostri – pensiamo anche a tutto il dibattito in seno alla Chiesa latina sull’orientamento della preghiera liturgica –, continuano a vivere la loro fede in una maniera profondamente cattolica, anche se diversa da quella a cui siamo abituati. 

Un tema molto dibattuto è quello dell’esercizio del sacerdozio sia celibatario che uxorato. Alcune delle Chiese orientali cattoliche hanno conservato questa prassi (che è presente anche nel mondo ortodosso) per cui esistono sacerdoti celibi e sacerdoti uxorati. A seguito della Plenaria di questa Congregazione nel 2013, Papa Francesco ha consentito loro la possibilità di esercitare il ministero per i propri fedeli anche al di fuori dei territori tradizionali, cosa che in precedenza non era consentita, se non addirittura esplicitamente proibita, come ad esempio per la Chiesa Rutena negli Stati Uniti a partire dalla fine del XIX secolo. 

Pensiamo anche a come i Pontefici, nel corso dei decenni, hanno voluto presentare la tradizione orientale come una via particolare per la percezione autenticamente cattolica dell’essere Chiesa. Da un lato con un’attenzione a realtà concrete, come quella del Libano (il Sinodo Speciale del 1996) o quella dell’intero Medio Oriente (il Sinodo Speciale dei Vescovi del 2010), ma mi riferisco anche agli interventi legislativi, quali la promulgazione del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali da parte di San Giovanni Paolo II (1990), e la sua attenzione al mondo dell’Europa orientale, con la proclamazione dei Santi Cirillo e Metodio a compatroni d’Europa.

Una delle peculiarità è un tema che sta molto a cuore al Papa, quello della sinodalità.

Il Santo Padre ha chiesto, e continua a chiedere a tutta la Chiesa, una riflessione su cosa significhi l’esercizio della collegialità e della “sinodalità”. Tale prospettiva sinodale caratterizza sin da subito la vita delle Chiese orientali cattoliche perché, in modo particolare quelle patriarcali e arcivescovili maggiori, si strutturano intorno ad un Patriarca o ad un Arcivescovo Maggiore, che esercita la guida della Chiesa insieme al Sinodo dei Vescovi, in un cammino di comunione e di collegialità.  La sinodalità è evidente, poi, nella prassi relativa alle elezioni vescovili per le sedi dei territori propri delle Chiese orientali cattoliche. Il Santo Padre è chiamato, infatti, ad esprimere un assenso sulla dignità di un candidato all’episcopato, ma l’assegnazione ad una sede piuttosto che ad un’altra nel territorio proprio è di competenza del Sinodo dei Vescovi.

Questi temi della sinodalità e del sacerdozio uxorato, spesso oggetto di riflessione e dibattito ai nostri giorni, sono in effetti esperienze già concretamente vissute nelle Chiese orientali cattoliche.

La storia delle Chiese orientali è stata ed è insanguinata da conflitti e violenze che hanno decimato nel corso degli anni la presenza delle minoranze cristiane e hanno costretto intere popolazioni a un esodo che sembra non avere fine. Quali sono attualmente le situazioni di emergenza più esplosive nelle aree di competenza della Congregazione?

In occasione del Sinodo per il Medio Oriente (2010) molti presuli di quelle terre chiesero che non si utilizzasse il concetto di minoranza, ma di presenza, per dire che il concetto di minoranza e di maggioranza, per quanto comprensibile a livello statistico, non è la chiave per leggere la loro esistenza in Medio Oriente. Perché di fatto si parla di una presenza cristiana ininterrotta in quelle terre, ma che numericamente è sempre stata simbolica rispetto alla stragrande maggioranza della popolazione, fatta eccezione per i primissimi secoli, presenza che però è, e vuole continuare ad essere, una testimonianza. Certamente i fronti in cui vivono i nostri fedeli orientali sono particolarmente drammatici: oramai abbiamo compiuto il decimo anno del conflitto siriano e sembra non intravedersi alcuna soluzione all’orizzonte. Qui appaiono differenti posizioni e sensibilità, ma un’unica certezza: milioni di persone (anche appartenenti alle fasce più deboli della popolazione, come i giovani, i bambini, le donne e gli anziani) privati di una casa, di una scuola, a volte di un ambiente per curarsi, di un luogo dove crescere, dove poter giocare, dove poter sperare, un luogo dove poter vivere e amare.

Può citare le situazioni oggi più drammatiche?

Pensiamo ai milioni di sfollati interni alla Siria e ai milioni di rifugiati all’esterno della Siria, nel vicino Libano, in Giordania, ma poi anche in Europa o negli Stati Uniti. Il fronte siriano è una ferita che continua a sanguinare e sembra non riesca a rimarginarsi, con la colpevolezza di tutti coloro che, pur potendo, rimangono inerti di fronte al grido di dolore, come Papa Francesco in maniera molto chiara ha più volte ribadito. Mi piace in particolar modo ricordare l’immagine di Bari, il 7 luglio 2018, e le sue parole, quel grido di dolore che si leva dalle terre del Medio Oriente e in modo particolare dalla Siria.

L’Iraq — dove è in programma il prossimo viaggio del Papa del 5 all’8 marzo — resta un luogo di forte instabilità, terra non pacificata anche per le pesanti conseguenze dell’invasione del cosiddetto stato islamico, ed è difficile pensare che chi è andato all’estero possa farvi rientro.

Ma pensiamo anche al grande interrogativo rispetto alla vita del Libano, devastato nell’agosto dello scorso anno dalle conseguenze della gravissima esplosione nel porto di Beirut, ma che già da mesi viveva una forte precarietà, una profonda crisi economica con migliaia di persone sotto la soglia di povertà. La situazione anche politica di questo Paese sembra pregiudicare l’esistenza stessa di un “Paese-messaggio”, in cui la convivenza tra i cristiani e i fedeli delle diverse confessioni musulmane sembrava essere un dato di fatto che ne faceva un luogo privilegiato in tutto il Medio Oriente. Prima della guerra dei decenni passati il Libano era considerato la Svizzera del Medio Oriente per la sua bellezza e la sua ricchezza, ma, possiamo aggiungere, anche come luogo singolare di pacifica convivenza tra le differenti componenti della popolazione.

Ma non vogliamo dimenticare anche altre realtà, le sfide dell’essere cristiani nell’India di oggi, come pure le tensioni perduranti e le conseguenti sofferenze delle popolazioni nell’est dell’Ucraina, in Etiopia e in Eritrea.

In che modo il dicastero offre un contributo di azione concreto per affrontare il dramma degli sfollati, soprattutto in un tempo in cui alle difficoltà endemiche si sommano quelle provocate dal Covid-19?

In modo particolare il dramma del Covid, che ha colpito tutto il mondo, ci chiede un supplemento di attenzione e di cura per quelle popolazioni così provate. Salvaguardando le competenze della cooperazione internazionale dei governi e di quelle della stessa Curia Romana (di organismi come Caritas Internationalis, o del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale), la Congregazione, dopo aver informato il Santo Padre e avendone ricevuto l’approvazione, ha inteso istituire un fondo di emergenza per le Chiese orientali cattoliche, esplicitamente finalizzato in questo tempo a gestire le emergenze legate alla pandemia. I fondi utilizzati sono proventi della Colletta di Terra Santa e di altri benefattori che si sono resi disponibili ad aiutare. Il Dicastero ha messo in campo risorse per più di 700.000 dollari, destinate all’acquisto di materiale igienico-sanitario di prevenzione, di cura (quali ventilatori polmonari) per Gerusalemme, Gaza, Siria, Libano, Etiopia, Eritrea, Iraq … E soprattutto si è messo in atto un meccanismo “sinodale” virtuoso attraverso alcune Agenzie della R.O.A.C.O., alle quali sono state presentate le richieste di aiuto per l’emergenza Covid giunte da diverse circoscrizioni ecclesiastiche di competenza del Dicastero, che hanno ricevuto una risposta pronta. Sono interventi di emergenza legati al Covid che si sono messi in atto per soccorrere le popolazioni orientali in questo tempo di prova. 

La presenza dei cristiani orientali in Paesi a maggioranza musulmana rilancia la questione dell’impegno comune contro il fondamentalismo, come ribadito un anno fa dalla “Dichiarazione di Abu Dhabi”. Che ruolo svolge la Congregazione nella promozione della “fratellanza umana” auspicata da Francesco e dal Grande Imam di al-Azhar?

La Congregazione ha accolto con stupore e con gioia il gesto che Papa Francesco ha voluto compiere con il viaggio apostolico ad Abu Dhabi. Come Prefetto ho avuto la gioia di poterlo accompagnare e di essere testimone di quell’evento storico. I cristiani in Medio Oriente in modo particolare (ma anche in India, con una presenza così significativa dei fedeli siro-malabaresi e dei siro-malankaresi in un territorio a stragrande maggioranza induista), rappresentano in sé una vocazione alla convivenza e al dialogo, nell’auspicato rispetto reciproco dei diritti e nel desiderio di costruire il bene comune come cittadini di un popolo, di un Paese del quale si vuole, appunto, il bene. Le Chiese cattoliche orientali hanno visto quindi, in questo passaggio, quasi un riconoscimento di un desiderio e anche di una pratica di vita che esse hanno cercato di proporre e di vivere, pur tra mille difficoltà e sofferenze, nella loro millenaria esperienza in tanti luoghi del Medio Oriente.

Può fare un esempio concreto di questa vocazione alla convivenza?

Quello che ho citato prima sul Libano ne è l’esempio più concreto: siamo nel 2020, a cento anni dal cosiddetto “grande Libano” e dalla prospettiva di una nazione che si costituisce e quasi riconosce come carta fondamentale della propria identità il reciproco riconoscimento e la pacifica convivenza tra confessioni e tra credi diversi, imparando a gioire gli uni degli altri per le feste e per le testimonianze di comunione. Pensiamo, ad esempio, a che cosa è diventata nel corso degli anni la celebrazione della solennità dell’Annunciazione il 25 marzo, festa che, anche prima del messaggio di Abu Dhabi, è davvero una festa condivisa: al centro la figura di Maria come annuncio di salvezza per il genere umano per noi cristiani, ma anche come annuncio della nascita di uno dei Profeti secondo la tradizione islamica.

Come ha agito la Congregazione per far sì che la Dichiarazione portasse frutto?

Rispondendo a quanto il Santo Padre ci ha chiesto, subito dopo il ritorno da Abu Dhabi, la Congregazione ha scritto immediatamente a suo nome a tutti i capi delle Chiese orientali cattoliche inviando copia del messaggio e chiedendo che questo messaggio fosse oggetto di lettura, studio, approfondimento, dibattito, all’interno dei percorsi formativi (ad esempio tra i candidati al sacerdozio e alla vita religiosa), ma anche nelle parrocchie, nelle università e negli istituti di cultura. In questo senso, le Chiese orientali e il Dicastero si sono sentiti destinatari in modo particolare di un desiderio del Santo Padre che quel messaggio fosse conosciuto e diffuso. Certo, alcune esperienze di vita ci dicono che quel messaggio indica un orizzonte ampio, bello, condivisibile, ma che non sempre nella realtà trova un riscontro; tuttavia ciò non deve scoraggiare o far sminuire il valore del documento, se in alcuni momenti della storia o del presente sembra disatteso. L’auspicio è che il desiderio e l’impegno personale di ciascuno per la promozione della “fratellanza umana” possa affrettare i tempi del suo compimento …

Il contributo della ROACO (Riunione Opere in Aiuto alle Chiese Orientali) all’attività della Congregazione costituisce un’originale forma di collaborazione “sinodale” tra un dicastero della Curia romana e le agenzie caritative di diversi Paesi del mondo. Perché è importante?

Sono lieto di cogliere nella domanda una sottolineatura di questa dimensione cui prima ha fatto cenno, la dimensione “sinodale”: il Prefetto della Congregazione risulta essere il Presidente della ROACO, ma la ROACO fin dal suo sorgere – sono passati più di 50 anni – di fatto è una realtà in cui il dicastero si offre come tavolo di coordinamento, collegamento e condivisione di informazioni, di risorse e di progetti tra un organismo della Curia romana che sovraintende alla vita delle Chiese orientali cattoliche nel mondo e tutte quelle realtà di attenzione specifica, in particolar modo alla vita delle Chiese orientali, che sono sorte nel corso degli anni nelle diverse nazioni per esprimere una solidarietà, una vicinanza concreta alla vita di questi nostri fratelli e sorelle. Penso a realtà come la CNEWA-Pontifical Mission negli Stati Uniti e in Canada, penso all’Œuvre d’Orient in Francia, penso alle realtà di Missio, di Misereor, di Renovabis, di Kirche in Not in Germania o ad entità quali quelle legate alle grandi diocesi, in modo particolare all’Arcidiocesi di Colonia, penso infine alla Conferenza Episcopale Italiana e all’ufficio di Cooperazione missionaria. Per cui il primo livello è quello della “sinodalità”. 

In che modo si attua questa collaborazione?

La modalità è un tavolo di confronto che, soprattutto negli ultimi mesi anche attraverso le nuove tecnologie e un po’ forzati dalla emergenza del Covid-19, è diventato sempre più permanente con video-collegamenti e riunioni (durante l’estate ne abbiamo già fatte due), in modo tale da far circolare le informazioni, le richieste di aiuto, e anche le richieste di chiarimento.

La struttura “sinodale” si esplica in questo modo: una realtà – che può essere una diocesi, un’eparchia, un ordine religioso, una parrocchia o un’altra entità – presenta un progetto cercando di strutturarlo in maniera chiara, comprensibile, ben programmata, che preveda una parte di contribuzione locale e anche una presentabilità secondo i criteri di trasparenza e di rendicontazione. Tale progetto viene presentato e approvato dal vescovo, autorità ecclesiale in loco, e trasmesso con l’approvazione e il parere della nunziatura apostolica, per cui già c’è una catena di collegamento e di accompagnamento nella comunione di queste realtà. Esso giunge infine alla ROACO, al nostro tavolo di coordinamento, il quale lo sottopone all’attenzione delle varie agenzie esprimendo anche il proprio parere e lo fa oggetto di discussione in due momenti in modo particolare: all’interno della Plenaria (che normalmente è prevista in giugno, con la presenza a Roma, per alcuni giorni, dei rappresentanti di tutte le agenzie che sono normalmente invitate ad una udienza con il Santo Padre), e poi in un secondo momento in gennaio all’interno dello Steering Committee della ROACO, che è una realtà più agile, costituita solo da alcune agenzie, che aiuta a studiare i principali dossier oltre che a programmare i lavori della Plenaria di giugno.

Può fornirci anche delle cifre?

Soltanto dal 2015 al 2020 il totale dei finanziamenti ricevuti è stato pari a 15 milioni di euro per circa 290 progetti. Cito alcuni numeri: Israele ha ricevuto un supporto per 37 progetti per quasi due milioni di euro; Cipro 2 progetti per €250.000; la Palestina 31 progetti per quasi €1.700.000; la Giordania 12 progetti per quasi €700.000; l’Egitto 6 progetti per quasi mezzo milione di euro; in Libano 33 progetti per €1.800.000; la Siria 18 progetti per €1.500.000; l’Ucraina 23 progetti per €1.200.000; l’India 78 progetti per €2.000.000, l’Etiopia 11 progetti per più di €1.000.000; la Turchia tre progetti per quasi mezzo milione di euro e via via anche altre realtà. L’Iraq è stato destinatario di soli tre progetti per circa €400.000, ma capiamo bene che in quegli anni c’era da affrontare la realtà del Daesh, dell’Isis, per cui c’era prima da gestire una situazione di distruzione e fuga, più che di vera e propria ricostruzione. Questi sono finanziamenti erogati soltanto attraverso progetti esplicitamente presentati alla ROACO. Ciò non implica che poi realtà come “Aiuto alla Chiesa che soffre”, Ordine del Santo Sepolcro e quelle già citate prima, anche senza passare dalla ROACO, abbiano realizzato altri significativi interventi di sostegno in tutte quelle realtà che abbiamo evocato. 

Anche per la vostra Congregazione si può parlare di un “bilancio di missione” che inquadra le voci di spesa e i costi nella prospettiva della missione del Papa? Ci può fornire qualche esempio concreto?

Il Dicastero ha molto apprezzato l’introduzione di questa categoria di “bilancio di missione”, nel senso che, da un lato, è stato giusto intervenire in questi anni con delle misure correttive per uniformare la prassi di presentazione dei bilanci di rendicontazione o i criteri di revisione contabile anche da parte degli enti della Santa Sede qual è il nostro dicastero, ma dall’altro però era necessario intendere questa opera di maggiore chiarezza, trasparenza come un luogo per far emergere le risorse che vengono ricevute, frutto della carità di tanti. Un luogo per dire la riconoscenza in modo particolare del nostro dicastero a tanti, tanti benefattori, ad esempio attraverso il 35% annuale della Colletta per la Terra Santa (il restante va ai Frati Minori della Custodia di Terra Santa), e una piccola percentuale della Colletta missionaria mondiale. Sono tante persone, più che benefattori istituzionali, che magari possono donare poco ma costantemente, e così consentono di operare in maniera grande per i nostri fratelli e sorelle delle Chiese orientali cattoliche.

Qual è l’importanza di questi piccoli benefattori?

Il Papa, in una delle udienze, ha definito e ha apprezzato l’intervento di tanti piccoli benefattori come l’obolo della vedova che dà tutto quanto ha per vivere ed è lodata da Gesù proprio perché non ha dato del superfluo, ma dell’essenziale per la propria vita. Questa operazione di trasparenza e di rendicontazione ha consentito da un lato di far emergere in maniera più consapevole il potenziale di bene che la Congregazione riceve da molti per poter aiutare, e dall’altro di mettere ugualmente in luce anche tutto il bene che il Dicastero, in ossequio a quanto riceve e secondo le intenzioni dei benefattori, è in grado di dare per la vita concreta e quotidiana delle Chiese orientali cattoliche.

In che modo il Suo dicastero investe nella formazione?

La Congregazione gestisce in Roma otto Collegi in cui sono ospitati ogni anno tra i 200 e i 300 studenti a seconda degli anni (quest’anno c’è stato un calo a motivo della situazione di pandemia). Per essi le borse di studio prevedono il mantenimento in collegio, l’iscrizione all’università, le necessità personali. Questa cura della formazione è un investimento sul futuro oltre che sul presente delle Chiese orientali, perché formando i sacerdoti, i seminaristi e le religiose, e alcuni fedeli laici qualificati presso le Università di Roma, non solo si garantisce loro una preparazione accademica il più possibile eccellente, ma lo si fa anche sub umbra Petri, vicino al Papa, anche per formare queste persone ad un respiro cattolico. Per il vitto, l’alloggio, le tasse accademiche, oltre che per le manutenzioni ordinarie e straordinarie delle strutture, la spesa annuale si aggira sui 3 milioni di euro.

Un’altra realtà è il Pontificio Istituto Orientale che forma attraverso le Facoltà di Diritto canonico e di Scienze ecclesiastiche orientali molti futuri pastori delle Chiese orientali cattoliche nel mondo: ad esso è destinato dal bilancio annuale 1 milione di euro.

In che modo la Congregazione sostiene direttamente le Chiese locali?

Un’altra voce è quella dei sussidi ordinari che la Congregazione ogni anno garantisce alle diocesi presenti sul territorio in modo tale che possano garantire un minimo le attività della vita ecclesiale e dell’annuncio del Vangelo della Carità. Il totale annuale ammonta a circa 4 milioni di euro.

Ci sono stati alcuni interventi di natura straordinaria relativi al mantenimento dei sacerdoti in territori dove non è possibile prevedere alcun’altra forma di sostentamento (come ad esempio avviene in Italia col meccanismo dell’8 per mille), per cui sono stati erogati a più riprese dei sussidi straordinari per quanto riguarda la vita dei sacerdoti in Siria, perché potessero continuare a garantire la loro testimonianza accanto alla popolazione che soffre.

Pensiamo all’intervento relativo alla Bethlehem University, una realtà nata dalla visita di San Paolo VI in Terrasanta e che si costituisce come un polo di formazione a Betlemme che accoglie studenti cristiani e musulmani e li forma attraverso l’opera dei Fratelli delle Scuole Cristiane (i “Lasalliani”). È una realtà preziosa cui su cui il Dicastero investe più di 1 milione di dollari all’anno.

Ma pensiamo anche ai sussidi per le scuole, gestite dal Segretariato di Solidarietà a Gerusalemme e dal Patriarcato latino: spesso queste scuole sono luoghi veramente di crescita, di convivenza, di formazione alla convivenza pacifica, ma a volte anche ambienti in cui essere preservati da forme di discriminazione che purtroppo in alcuni contesti nelle scuole pubbliche hanno visto protagonisti in negativo i nostri cristiani. A loro vanno quasi 2 milioni di dollari all’anno.

Un’altra voce è rappresentata dagli interventi straordinari. Che cosa può dirci in proposito?

Pensiamo agli interventi del Santo Padre, come il recente contributo per le borse di studio nelle scuole cattoliche in Libano, a cui la Congregazione ha contribuito a nome del Santo Padre con 100.000 dollari, o ancora ad interventi straordinari per preservare alcuni luoghi particolari della vita della Chiesa oltre che patrimonio dell’umanità. Pensiamo al contributo per il restauro della Basilica della Natività a Betlemme, di recente concluso, e a quello dell’edicola del Santo Sepolcro e ora all’intero Santo Sepolcro, per i quali la cifra messa a disposizione negli anni ha superato il mezzo milione di dollari.

Come si può vedere molte sono le spese, a volte al limite di quello che le entrate consentono, ma sempre memori dell’espressione di San Paolo «vi è più gioia nel dare che nel ricevere», pur sotto l’occhio vigile della Segreteria per l’Economia: ogni gesto di generosità si fonda nella certezza che il Signore non lascerà mancare quanto necessario per aiutare e mostrare il volto della carità della sua Chiesa.

di Alessandro De Carolis