Il primo febbraio 1851 moriva Mary Shelley

Frankenstein
e la lesa divinità

Boris Karloff nei panni di Frankenstein nell’omonimo film del 1931
30 gennaio 2021

Nacque rispondendo ad una sfida il primo grande romanzo gotico horror della letteratura, Frankenstein o il moderno Prometeo, scritto da Mary Shelley appena diciannovenne. A lanciare la sfida fu Lord Byron, che ospitava in quel tempo (era estate) la giovanissima scrittrice — di cui il primo febbraio ricorrono i 170 anni della morte — nella sua villa a Ginevra e colui che sarebbe diventato suo marito, il poeta Percy Bysshe Shelley. A completare la compagnia c’era il medico di Byron, John Polidori. Dopo aver letto una raccolta di racconti del terrore scritti in tedesco, Byron invitò l’eletto uditorio a creare una storia di fantasmi: avrebbe vinto che l’avesse resa non solo la più avvincente, ma anche la più paurosa. Il livello della competizione, non c’è che dire, era di pregiata qualità. Polidori perse, eppure aveva scritto Dracula, un’opera destinata ad occupare uno scranno di prestigio ne nobile salotto della letteratura. E vinse Mary, capace, con il suo romanzo, di dare vita al mostro più famoso della storia e di creare un prototipo — nella dimensione dell’horror — rimasto indelebile nella memoria collettiva. E pensare che fu la noia — scaturita da giornate piovose e fredde pur essendo estate — la fonte ispiratrice per Mary.

Nel voler vincere sia la sfida sia la noia, forgiò quel mostro, donandogli una longevità che continua a irridere mode, tendenze, nonché la corrosiva usura del tempo. Il titolo del libro — che l’ha consacrata nell’empireo della letteratura e che ha ispirato numerosi adattamenti teatrali e cinematografici — non si riferisce in realtà al mostro, ma al folle scienziato, Victor Frankenstein, che quel mostro lo ha plasmato assemblando pezzi di cadaveri.

Affonda nelle croniche paure umane il segreto della longevità, mai scalfita, di quella deforme creatura, nella quale tali paure si specchiano e si sublimano. E si spiega, in virtù di un genio precoce, l’illuminante intuizione della Shelley di inchiodare l’animo umano alle sue inconfessate debolezze, che si manifestano con insinuante prepotenza quando sono sollecitate dalla grottesca trasfigurazione del reale e dall’ineffabile richiamo dell’ignoto, che nel suo intimo cela un inquietante e destabilizzante guazzabuglio di pulsioni e sentimenti.

Trascrivendo i confusi segmenti affiorati in un convulso e pur illuminante dormiveglia, la Shelley scriveva: «Vedevo ad occhi chiusi ma con una percezione mentale acuta il pallido studioso di arti profane inginocchiato accanto alla “cosa” che aveva messo insieme. Vedevo l’orrenda sagoma di un uomo sdraiato e poi, mentre entrava in funzione qualche potente macchinario, lo vedevo mostrare segni di vita e muoversi di un movimento impacciato, quasi vitale. Una cosa terrificante, perché terrificante sarebbe stato il risultato di un qualsiasi tentativo umano di imitare lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo».

La critica ha sempre accostato Frankenstein a un’altra opera di grande successo e di potente impatto emotivo, L’isola del dottor Moreau di H.H. Wells (1896). C’è tuttavia una significativa differenza tra i due romanzi che si concludono entrambi, come notava il celebre saggista Mario Praz, con una «catastrofe».

L’opera di Wells presenta uno sfondo sociopolitico, quella della Shelley uno sfondo etico-religioso. In Frankenstein la catastrofe risulta inevitabile perché l’uomo, tentato e assillato da smanie prometeiche, ha commesso l’errore di voler superare i confini assegnatigli dalla divinità. In questa temperie domina la concezione del trasgressore di impronta faustiana, per cui il patto con il demonio e la vendetta del cielo non sono metafore astratte, ma esibiscono una concretezza icastica. In virtù di questa dimensione narrativa, la punizione, scatenata dall’atto ribelle dell’uomo oltremodo tronfio, acquista una severità ancora più arcigna.

C’è un tratto che accomuna la Shelley a Dickens, ovvero il distacco con cui descrivono “il brutto”, senza per questo sconfessare il loro credo nell’operazione narrativa che stanno conducendo. Nonostante padroneggiasse una lussureggiante vegetazione di aggettivi, Dickens, nel descrivere i bassifondi londinesi, non definisce mai con precisione gli oggetti più repellenti, ma ricorre a termini generici, quali «sporcizia» o «odori nauseabondi». Dal canto suo la Shelley usa una terminologia che evidenzia la reazione del narratore ai materiali dei suoi esperimenti, ma non illustra mai gli oggetti stessi.

Il genio della scrittrice inglese (nata e morta a Londra) non si esaurisce comunque in Frankenstein. Recano la sua firma infatti alcuni romanzi storici, come Valperga (1823), ambientato in Italia durante il Medioevo; The last man (1826), la storia dell’unico sopravvissuto a una pestilenza che ha distrutto l’intera umanità, e The Fortunes of Perkin Warbeck (1830) in cui la scrittrice sostiene con forza che senza un miglioramento della natura umana è impossibile creare un sistema politico giusto ed equo. A radicare in lei questo convincimento contribuì Walter Scott dei cui romanzi storici innervati della dimensione etica e morale la Shelley era avida lettrice.

Il suo repertorio comprende poi (1830), libri di viaggi, come Escursioni in Germania e in Italia (1844), e una raccolta di racconti brevi, ispirati, sulla falsariga di Frankenstein, alla narrativa gotica, concepita come un perentorio contraltare al realismo in letteratura. Attraverso questi racconti la Shelley intende infatti rivendicare quelle zone recondite dell’animo umano che l’approccio realista, sentito come parziale e superficiale, non aveva cercato di esplorare.

Ecco allora che la dovizia di cunicoli e passaggi segreti che caratterizza questi testi si carica di un chiaro valore simbolico, volendo rispecchiare le sotterranee vie che attraversano l’interiorità di ogni persona. La Shelley si cimentò anche nella poesia, nel cui ambito spicca il poemetto in versi The choice, impregnato di cupa malinconia perché legato alla morte dei figli e del marito.

È una commossa elegia che in felice sintesi coniuga la delicatezza del verso e la soavità dei sentimenti, convergenti nel formulare lo struggente augurio di “un ritorno” mistico che sancisca il ripristino del violato nucleo familiare.

di Gabriele Nicolò