Nel Borneo con una barca
la moto e tre cigni

Indigeno del Borneo
29 gennaio 2021

La missione di Cristo viaggia veloce nella terra del Kalimantan, la regione più vasta dell’Indonesia (549.032 chilometri quadrati con oltre quindici milioni di abitanti), situata sulla vasta isola del Borneo, coperta di foresta tropicale, laddove la popolazione è costituita soprattutto dagli indigeni dayak, etnia autoctona con credenze animiste, divisa in quattrocento tribù. Qui il Vangelo si diffonde e, grazie soprattutto all’opera apostolica di religiosi e suore, vi sono nuovi catecumeni ogni anno fra la popolazione indigena, che per circa il 25 per cento è cristianizzata. In un territorio abitato da tribù che vivono isolate nella foresta, con una vita basata sulla caccia e sull’agricoltura di sussistenza, in villaggi privi di telefoni e linee elettriche, e con trasporti perlopiù fluviali, l’opera di evangelizzazione resta affidata quasi unicamente ai contatti personali: catechisti e missionari visitano i villaggi e parlano con i capi tribù, annunciando il messaggio di Cristo. È l’esperienza di Liem Tjay, missionario indonesiano di etnia cinese, originario dell’isola di Giava, che ha trascorso oltre un decennio in solitudine in una remota area del Kalimantan orientale. Nicolaus Setiawan — questo il nome indonesiano di Liem — è stato toccato dalla grazia di Cristo ed è divenuto sacerdote nel 1991, unendosi all’istituto missionario degli Oblati di Maria Immacolata (Omi), che in Indonesia e in Borneo sono presenti da oltre duecento anni.

Con il cuore desideroso di annunciare e vivere il Vangelo, ha ricevuto e accolto con entusiasmo l’incarico pastorale in questa terra, destinazione Penajam, un’area remota nella provincia del Kalimantan orientale. Sconosciuta alla maggior parte degli indonesiani fino al 2019, Penajam è inaspettatamente salita alla ribalta delle cronache perché il presidente indonesiano Joko Widodo ha annunciato di voler costruire lì la prossima capitale indonesiana, sostituendo la già gremita Jakarta. «Nel 2000 sono stato ufficialmente assegnato a Penajam come primo sacerdote residente con una missione chiave: avviare qui la fondazione della prima chiesa parrocchiale», racconta padre Nicolaus Setiawan. Allora a Penajam c’era solo una piccola canonica, una casa in legno molto semplice. I fedeli censiti erano oltre seicento ma “sparsi” ovunque nel territorio impervio. «Non c’era altro modo per visitarli e portare avanti la pastorale se non spostandosi continuamente», nota. I mezzi di trasporto erano due, la barca e la motocicletta da cross. «Guidavo con una moto fuoristrada in strade fangose nella giungla o navigavo su piccole barche a motore in grandi fiumi, infestati da coccodrilli», ricorda padre Nicolaus narrando la movimentata vita missionaria a Penajam. Incontrare le famiglie, celebrare l’eucaristia e la riconciliazione, fare catechesi ai bambini: era una vita sempre impegnata e dinamica.

La solitudine a volte era dura: «Dovevo procurami il cibo da solo, vivendo senza elettricità e con acqua pulita e potabile sempre razionata. Ma non mi è mai mancato nulla». La sua vita solitaria era accompagnata solo dalla presenza di tre cigni. Questi animali, quasi addomesticati, vivevano nei pressi della casa e spesso la “proteggevano”: «Quando, nel 2006, a Penajam si diffuse l’allarme su un potenziale tsunami, i miei tre cigni mi hanno svegliato all’alba perché fuori dalla canonica c’era una situazione di panico tra i fedeli, e ci si doveva spostare su un terreno più elevato per trovare rifugio», racconta. In una vita quotidiana fatta di sobria essenzialità, un tratto che il sacerdote ricorda è l’ospitalità della gente, a prescindere dalle diverse credenze religiose. «Sono stato molto spesso invitato a visitare le famiglie indigene e a passare il tempo conversando e gustando il loro cibo. Durante la celebrazione della festività di Eid al-Fitr, alla fine del Ramadan, le famiglie di fede musulmana mi invitavano a visitare la loro casa e godere il pasto insieme», racconta.

Finalmente, poi, la costruzione di una cappella, luogo sacro che diventa un riferimento costante per i fedeli. Il sacerdote cita un episodio: «Una notte, un uomo di nome Lupoq è venuto a visitare la cappella. Era un dayak, proveniente da un villaggio distante circa settanta chilometri da Penajam. Aveva compiuto un arduo viaggio di parecchie ore in barca per arrivare. “Mia figlia Maria Silau è scomparsa”, mi disse tra le lacrime. “Volevo pregare Nostra Madre Maria chiedendo il suo aiuto per trovare la mia ragazza, che ha il suo stesso nome”, aggiunse». L’uomo aveva portato già alcune candele dal suo villaggio e, dopo aver pregato intensamente, le pose poi davanti alla statua della Madonna. Dopo ore di preghiera, Lupoq lasciò Penajam per tornare a casa. «Ma una settimana dopo, improvvisamente, lo vidi nuovamente qui; mi chiese la chiave della cappella per pregare ancora una volta la Signora. “Maria Silau è stata ritrovata ed è tornata a casa sana e salva”, disse raggiante». Il sacerdote condivide la lezione della sua esperienza missionaria in Borneo: «Le persone a volte esprimono la loro fede in Dio attraverso Maria. Per Maria ad Iesum è qualcosa di reale». Anche nel remoto Kalimantan. (paolo affatato)