Atlante - Cronache di un mondo globalizzato
Prospettive globali dal World economic forum e dal Climate adaptation summit

Il bivio

Greenpeace's Arctic Sunrise ship navigates through floating ice in the Arctic Ocean, September 15, ...
29 gennaio 2021

Da Davos a l'Aja due modelli di sviluppo
Una scelta urgente per un decennio che può decidere le sorti del pianeta


Da Davos all’Aja tutte le strade portano alla denuncia della catastrofe climatica incombente. Che si parli di economia o di strategie di adattamento delle popolazioni al clima impazzito, il quadro di riferimento per qualunque analisi — dal World economic forum al Climate adaptation summit — è sempre il decisivo decennio che abbiamo imboccato.

Un tempo che, da qui al 2030, obbliga la comunità mondiale a trovare soluzioni efficaci, resilienti e collettive prima che sia davvero troppo tardi. La pandemia, che ha impedito ad analisti, capi di Stato, economisti di incontrarsi di persona negli abituali ambienti fra Davos e l’Aja, ha soprattutto reso ineludibile la questione: c’è qualcuno che possa farcela da solo? Nessuno ormai risponde di sì.

Se venti anni di catastrofi climatiche indotte dal surriscaldamento globale sono costate mezzo milione di vite, soprattutto nei Paesi più fragili, è chiaro a tutti, però, che lasciare al suo destino la parte più debole della famiglia umana significa condannarla tutta. Ed al ritmo in cui procede la crisi climatica, tra emissioni di gas serra e grandi incendi (dall’Australia all’Amazzonia), si calcola in un decennio il tempo prezioso ed utile per fermare la deriva.

Gli accordi di Parigi sulla riduzione del 55% dei gas serra si davano l’orizzonte del 2030 per quello che viene considerato un obiettivo non più risolutivo. Lo ha detto molto chiaramente, in questi giorni, l’inviato speciale del presidente Biden per il clima, John Kerry. «Solo Parigi non basta» ha avvertito, appena riportati gli Stati Uniti nella comunità dei 190 Paesi aderenti agli accordi, dopo l’isolamento del periodo della presidenza Trump. Fragili, dipendenti gli uni dagli altri in un mondo interconnesso fra diseguali. La pandemia , ha detto la cancelliera Angela Merkel, rivolgendosi alla platea virtuale di Davos, «ha reso più chiaro di quanto non fosse che l’isolamento non risolverà i nostri problemi. Abbiamo bisogno — ha detto — di scegliere un approccio multilaterale» se vogliamo che i problemi siano risolti. Sugli stessi toni il presidente della Repubblica popolare cinese Xi JinPing: «Non possiamo affrontare sfide comuni — ha detto— in un mondo diviso».

Se il multilateralismo sembra un obbligo naturale alla comunità internazionale che ha parlato a più voci in questi giorni tra Davos e l’Aja, resta un bivio a dividere l’imbocco del decennio in cui «Parigi non basta» più.

Costruire un modello di sviluppo nuovo, alternativo, cambiare il paradigma della convivenza umana per mettere al centro lo sviluppo integrale dell’uomo — come chiesto all’Aja dal cardinale segretario di Stato Pietro Parolin — oppure, opzione che sarà lanciata da un nuovo manifesto di Davos, modificare quello attuale con una sorta di terza via fra capitalismo di azionariato e capitalismo di Stato, il cosiddetto capitalismo stakeholder: un modello di sviluppo rivisto in cui le imprese private si carichino della responsabilità verso il benessere di tutti come «fiduciarie» della società.

Si tratta in sostanza di scegliere il traghettatore verso la gola stretta del 2030, sapendo che Parigi non basta più. Capitalismo corretto o un nuovo modello che sorga dal basso, dalla cura delle ferite, dalla memoria di come sono state inflitte e del modo in cui, da qui a dieci anni, si sceglierà di curarle.

di Chiara Graziani