«La goccia che apre le ombre» di Lucia Aterini

Artigiane
della giustizia che ripara

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29 gennaio 2021

«Il rancore ti condanna sempre all’istante passato». Ne è convinta Claudia Francardi, vedova di un carabiniere ucciso in servizio e una delle due protagoniste della storia incredibile raccontata da Lucia Aterini La goccia che apre le ombre (Firenze, Libreria Editrice Fiorentina 2020, pagine 152, euro 16). L’altra è Irene Sisi, la madre dell’omicida.

È la mattina di Pasquetta del 2011, il 25 aprile di dieci anni fa, quando in provincia di Grosseto Matteo Gorelli viene fermato in auto per un controllo da due carabinieri: la reazione del giovane è una rabbia selvaggia che fa perdere un occhio a Domenico Marino e riduce in coma Antonio Santarelli, che morirà dopo oltre un anno — senza aver mai ripreso conoscenza — l’11 maggio 2012.

Un morto, un invalido, un orfano e un giovane condannato in via definitiva a vent’anni: è in questo coacervo di violenza, colpa e dolore che si incontrano le due donne, le cui vite vengono sconvolte nel medesimo istante pur trovandosi su parti opposte dello stesso baratro. Due donne comunque vittime che provano — e che riescono — a non subire passivamente il loro tragico destino («Ci siamo accolte e protette a vicenda per non annegare entrambe»), ma a costruire una storia portatrice di un messaggio rivoluzionario. Francardi e Sisi hanno infatti il cuore, l’intelligenza e la forza di riuscire a convertire la rabbia e l’odio in reciproco aiuto e vicinanza contro il vuoto di sentimenti e di valori che le circonda.

Il libro racconta dunque il cammino intrapreso dopo l’omicidio dalle due madri, prima in solitaria e ben presto insieme. Un cammino che non intende affatto cancellare il dolore (o la responsabilità), ma vuole dargli un senso per non moltiplicarlo nell’odio e nella vendetta. E nell’affrontarlo senza esitazioni, Francardi e Sisi sono capaci di trasformarlo.

Da un lato, dunque, c’è Claudia Francardi. «Sto portando avanti solo un percorso di riconciliazione, ho deciso di stare accanto a questo ragazzo, al suo fianco, e non essere sopra di lui; di lavorare a questo progetto insieme a sua madre Irene». Dopo il primo incontro con Matteo, l’omicida, le persone vedono in lei una gioia che non riescono a capire e che leggono come un tradimento nei confronti del marito. Ma la donna, pur soffrendo molto per questi atteggiamenti, non arretra: sa di non aver commesso alcuna mancanza nei confronti di Antonio. «Da allora qualcuno ha iniziato a capirmi, altri invece si sono arroccati sulle loro posizioni e tendono a semplificare troppo non chiedendomi mai come mi sento io, ma solo che fine ha fatto il responsabile della morte di mio marito». Francardi ha dovuto infatti affrontare anche la diffidenza di molti che non le perdonano di aver perdonato: tanti gli sconosciuti che sui social l’hanno pesantemente offesa, ma anche tante critiche da parte di familiari, colleghi e amici.

Ma Claudia Francardi non vuole dimenticare. «Non voglio cancellare quello che è stato, rimango convinta che questo ragazzo abbia le sue responsabilità, debba scontare la sua pena, non per Antonio ma per Matteo». Ma vendetta, odio e rancore non fanno per lei.

Dall’altro c’è Irene Sisi che ha avuto l’umiltà di riconoscere i propri errori di madre («Sono stati tanti i segni che ho sottovalutato»), di “ripartorire” suo figlio ristabilendo con lui un rapporto basato sul dialogo. Sisi che giorno dopo giorno è riuscita a superare la vergogna che rischiava di immobilizzarla. «Ora per me Claudia è diventata fondamentale, è una persona della mia famiglia e ho fiducia in lei. (…) Matteo, da parte sua, dovrà essere presente nella vita di questa donna e in quella di suo figlio in un percorso di emancipazione dal male che è stato messo in atto».

Peccato però che le due donne siano state lasciate sole nel loro cammino. Tutto ciò che hanno fatto, Francardi e Sisi lo hanno fatto da sole senza che nessuna istituzione le aiutasse. Senza accompagnamento o mediatori; senza aiuto.

Queste due artigiane della giustizia riparativa hanno fondato l’associazione AmiCainoAbele, come simbolo di due facce di una stessa medaglia, attraverso la quale — oltre ad aiutare se stesse — provano anche ad aiutare altre vittime. Il loro vissuto è diventato così un patrimonio per coloro che stanno da parti opposte. Da quella che ha subito violenza, e da quella che invece l’ha messa in pratica.

di Silvia Gusmano