Riemergono dagli archivi carte e testi inediti della scrittrice

Alinda Bonacci Brunamonti la musa della franchezza

Una targa commemorativa dedicata ad Alinda Bonacci Brunamonti
29 gennaio 2021

La copertina del libro, istoriata di delicate trasparenze floreali, rischia di depistare il lettore. Per avere subito un’idea di chi è la protagonista del volume, meglio leggere la frase in esergo: «Né io tradirò mai i divini ideali per gradire al secolo». Loretta Marcon parte, giustamente, da qui per parlarci di una scrittrice citata, di solito, nelle note a piè di pagina insieme a una folla di minori ottocenteschi, quando non confusa con la poetessa Vittoria Aganoor Pompilj (sua grande amica, peraltro).

Anche il titolo è particolarmente azzeccato, Il «sentire» di Maria Alinda Bonacci Brunamonti. Tra inediti familiari e rapporti letterari (Padova, Il Poligrafo, 2020, pagine 60, euro 16); della scrittrice nata a Perugia nel 1841 e morta nel 1903 nella stessa città è interessante il “sentire”, la sua visione del mondo, il suo approccio franco, libero, sincero alla conoscenza di se stessa e degli altri. Quella «sconfinata libertà di spirito, ch’era la sua più viva passione» come chiosa Marcon introducendo la sua ultima fatica, frutto di un tenace lavoro d’archivio, alla ricerca di carte inedite e di dati biografici da inquadrare e illuminare in un contesto capace di svelarne la profondità.

Le antologie letterarie, di solito, citano Maria Alinda Bonacci Brunamonti per le sue frequentazioni eccellenti: in effetti mantenne rapporti con importanti letterati del tempo come Giacomo Zanella, Giosuè Carducci, Antonio Fogazzaro. Da Carducci ebbe giudizi non sempre lusinghieri; talvolta, qualche commento sarcastico al limite della maleducazione. A Perugia nel giugno 1877, Carducci la conobbe ma non riuscì ad apprezzarla né sul piano estetico («la Brunachilde — scrive in una lettera — la vidi ieri sera; ed è peggio che nel ritratto») né sul piano poetico, definendo i suoi versi «profondamente antipatici». Ma c’è anche un biglietto, a nome «Giosuè Carducci. Senatore del Regno» dove scrive queste parole: «Bologna, 21 marzo 1897. L’approvazione della Sign. Bonacci Brunamonti mi è premio. G.C.», in risposta a un messaggio affettuoso inviatogli dalla poetessa qualche giorno prima, il 19 marzo.

Maria Alinda non fa mistero della sua fede cristiana, e poco si cura che i suoi colleghi letterati si prendano gioco di lei per questo. Non lesina critiche neanche al suo amatissimo Giacomo Leopardi, fedele al proposito di non tradire mai «i divini ideali per gradire al secolo».

Con la poesia del grande recanatese intreccia un dialogo serrato, appassionato, talvolta polemico, che non avrà mai termine.

«Io ho avuto due maestri in vita mia egualmente potenti sul mio spirito: Dante e Leopardi — scrive in Pensieri cristiani — Ambedue m’hanno insegnato lo stesso vero: ma l’uno affermando, l’altro negando. Da ambedue ho attinto la stessa sapienza. Il primo m’eleva coll’arte sua alle altissime visioni della giustizia oltremondana; il secondo, mostrandomi un velario nero terribile, fra cielo e terra, m’ha invogliato a sollevarne i lembi per cercar l’azzurro al di là».

È proprio Leopardi a rivelare il fallimento della illuministica cultura della ragione; una cultura così simile a quella contro la quale Maria Alinda scriverà pagine intense. Di Leopardi, che pur ama molto, si farà talvolta “maestra”, suggerendo risposte ai quesiti di lui, in un dialogo non solo letterario. Ne sono prova il carteggio con Teresa Teja, seconda moglie di Carlo Leopardi, e il sonetto da lei scritto Vox de coelo dedicato dalla famiglia Corsetti ai conti Giacomo junior e Sofia Leopardi quando il loro amato primogenito Monaldo viene ordinato sacerdote: «Molte cose mi dice, e a sovrumana / Vita m’esalta: dubbio, ira, sgomento / Dileguan vinti da una pace arcana, / E confidente ed ilare divento. / La vita delle cose aride, amare, / Che gravan di lor noia i sensi stanchi, / Sotto quell’onda magica scompare». Maria Alinda ha parole molto dure anche contro quei “bigotti” incapaci di empatia: «Le persone pie, acquistano dalla pietà loro una specie di più irosa e resistente antipatia — scrive il 30 giugno 1875 — Il sentimento religioso che le induce con facilità a perdonare e dimenticare un’offesa personale, non è quasi mai tanto profondo da indurle a perdonare un’opinione diversa».

Una schiera in cui non esita ad annoverare anche se stessa: «Quanto è facile a me parlar di virtù, di sacrifizio, d’amore, correggere le sentenze disperatamente amare di Leopardi, stando qui in una raccolta e dolce cameretta, co’ piedi sopra le frange morbide d’una stuoia, studiando a tavolino i libri e la vita! Che virtù è la mia? Virtù indica battaglia e vittoria. A che lotte è stata esposta la mia vita? Come potrei essere invidiosa, superba, iraconda, se la vita in quest’ora mi sorride? (...) Tutti i felici sanno esser buoni in un certo modo».

di Silvia Guidi