L’edizione delle «Lettere» a cura di Alice Farina

Nell’abisso dell’animo

Munch, «Malinconia» (1892)
28 gennaio 2021

«Grigorovič è rimasto, e non aveva intenzione di andarsene. Si è messo a raccontarmi di tutto e di più dei suoi ultimi trent’anni, rivangando il passato e così via. Ha mentito per metà del tempo, ovviamente, ma è stato interessante». Già da questo passo di una lettera alla moglie Anja del maggio 1880 si può intuire il nucleo fondante di tutta la poetica di Fëdor Dostoevskij: la penetrazione negli abissi — e nelle contraddizioni — dell’animo umano.

Ed è per questo assai utile — e per certi versi appassionante — leggere la recente edizione delle sue Lettere curata da Alice Farina (Milano, Il Saggiatore, 2020, pagine 1376, euro 75, traduzione di Giulia De Florio, Alice Farina ed Elena Freda Piredda): nonostante la sua decisa avversione per la scrittura epistolare, confermata dall’affastellarsi e dal ripetersi di frasi e periodi, dal tornare indietro sul medesimo concetto, alcuni passi ci sono di grande aiuto per capire l’intera opera del russo.

Perché l’autore dell’Idiota non narra la lotta tra un bene e un male astratti, ma la fascinazione di quel male — in questo caso la capacità della menzogna di entrare nel cuore umano — che, per essere così presente e minaccioso nel nostro cuore, non si presenta certamente attraverso il brutto e il negativo, anzi.

Queste lettere — alle due consorti (la prima, Marija Isaeva, era morta nel 1864, la seconda, Anna Grigor’evna diventò sua moglie nel 1867), ad altri scrittori, ai fratelli, ai figli, ad alcuni membri della famiglia dello zar — sono la prova provata di quanto Tzvetan Todorov ha messo in luce nel suo Il caso Rembrandt: non si deve per forza trovare una relazione assoluta tra lo spirito dell’opera e la vita del suo autore. Anche se talvolta, e lo vediamo in queste lettere, elementi del vissuto o della percezione del mondo autoriale aiutano a capire meglio l’opera. Troviamo qui infatti le testimonianze dirette e drammatiche di episodi già noti della sua biografia, come l’atroce finta esecuzione e la “grazia” dello zar all’ultimo momento, gli attacchi epilettici, il vizio del gioco e la continua, ossessiva ricerca di denaro, ma anche improvvisi lampi in cui la coscienza autoriale trasmette l’aggallare dei fantasmi interiori, alla radice dei personaggi più combattuti dei Demoni o dei Fratelli Karamazov.

Mentre il suo aspetto diurno e razionale gli permette di consigliare pragmaticamente i suoi corrispondenti (non può non far sorridere, da parte del creatore dell’Uomo del sottosuolo, l’invito a costruire «relazioni possibilmente normali» alla segretaria Sof’ja Ivanova), il contatto con le tenebre affiora nella constatazione di quanto sia «terribile che con i peccati l’uomo possa di nuovo trasformarsi in una bestia» (lettera del 1876 al musicista V. A. Alekseev).

Ma ci sono momenti addirittura profetici: ad esempio quando nella lettera da Ginevra a Majkov lo scrittore nota la diminuzione della superficie boschiva in Svizzera a causa del taglio indiscriminato della legna. «Fra 25 anni non ne rimarrà affatto», azzarda Dostoevskij, accelerando e anticipando le battaglie per la salvaguardia del pianeta che diverranno tangibili solo un secolo dopo.

Ed è possibile approfondire la sua visione provvidenziale della missione del popolo russo e la sua avversione sia alla Chiesa di Roma che all’ebraismo, che secondo lui hanno ignorato il centro focale della fede che è la figura del Cristo: una visione che lo porta all’astio e alla frequentazione di luoghi comuni popolari; è infatti nel popolo russo che lo scrittore vede l’alternativa reale a quello che è un altro suo autentico incubo: l’insieme delle istanze progressiste che in quel momento storico erano incarnate dalle varie utopie socialiste, i nichilisti, i rivoluzionari, i giovani universitari e una borghesia imbevuta di quelle stesse idee che egli interpretava come scimmiottamenti di mode occidentali.

Discorso che lo scrittore riprende nella già citata lettera ad Alekseev: il socialismo promette la soluzione del problema dell’uomo come essere materiale; ma, d’altra parte, Gesù era andato oltre con il suo «non di solo pane vive l’uomo» e aveva indicato anche la strada spirituale e l’ideale di una Bellezza nuova senza la quale «l’uomo si struggerà, morirà, impazzirà, si ucciderà».

Non si tratta, per lo scrittore, neanche di pareggiare i conti dando all’uomo metà Bellezza e metà pane, perché altrimenti in noi verrebbe a mancare la necessità di giungere, anche attraverso il combattimento e la sofferenza, alla Rivelazione e alla salvezza. È proprio il concetto di Bellezza uno dei fondamenti dell’opera dostoevskiana, e, non a caso, questa edizione delle Lettere traduce l’aggettivo russo prekrasnyi con «bello», e non «buono» come in altre edizioni, parlando del protagonista dell’Idiota, il principe Myškin. La differenza è notevole: la bellezza, come aveva notato Mauro Martini nell’introduzione all’edizione Newton de L’idiota, comporta un senso di alterità e di splendore che contiene in sé anche la bontà «innaturale» — per gli altri uomini — di Myškin.

Grazie a questa edizione abbiamo dunque la possibilità di capire meglio l’uomo Dostoevskij, e nel contempo discendere fino alle origini di alcuni motivi che renderanno un classico ciò che ai suoi tempi era visto da molti come un passo indietro. O abissalmente avanti.

di Marco Testi