«Forever» di Francesco Bianconi

Lettere di rabbia

 Lettere di rabbia  QUO-022
28 gennaio 2021

«Resistenza e resa» è il titolo del capolavoro, in molti passi ancora profetico, di Dietrich Bonhoeffer. Identico titolo poteva avere Forever, l’album di Francesco Bianconi, lo storico leader dei Baustelle, scritto e composto prima della pandemia ma, con stupore dello stesso cantautore, attuale ancora adesso che finalmente è pubblicato. Resistenza alla «paura» che ci pervade di fronte all’abisso, e resa alla «felicità» — o meglio alla gioia — che si può sperimentare quando ci si dispone alla ricerca del bene. Non è un caso che Bianconi parli del suo primo album da solista come di un disco «a metà tra una messa e una colata lavica».

Musica elegante e ridotta all’essenziale — pianoforte, voce e archi — per carezzare il cuore. Testi di una sanguinante densità introspettiva, perché «crescere è importante / ma fa male, chiama sangue» (Assassino dilettante). Francesco infatti, come un novello Agostino, discende dentro sé e, in un esame di coscienza privato che nei brani Il bene e L’abisso diventa coraggiosa confessione pubblica, riconosce e condivide alcune atrocità di cui ha fatto esperienza nell’«assedio della vita»: la morte ingiusta e improvvisa di un giovane amico, l’incontro con la filosofia, la sporcizia della politica, gli auto-assolvimenti diffusi. Incarnazioni del biblico Leviatano — o del più recente Babadook cinematografico — che lo hanno spinto a comporre «lettere di rabbia» e a disprezzare troppi aspetti della vita, rendendolo col tempo un nichilista: un uomo in apparenza a suo agio dentro un’allucinazione, ma a cui talvolta sembra «di impazzire / di perdermi e non ritrovarmi più» (L’abisso). Un uomo così adirato che «ha bisogno di una croce da inchiodare… di un san Pietro da bruciare», che follemente «vuole abbattere il tiranno / anche a costo di sbagliare», che incoerentemente «vuole uccidere il padrone / cheе gli ha dato da mangiare» mentre «vive ancora a casa sua» (Assassino dilettante). Un uomo spaventato che non riesce a convivere con i propri demoni e percepisce il viaggio terreno su «binari di cristallo» come avvolto da uno sfondo di paura; un uomo disilluso e disperato, «perché mi pagano per scrivere / io sono bravo a fingere / a far bella figura in società» (L’abisso).

Ma — lo ricordiamo? — è dal letame che nascono i fior. A volte è inevitabile dover sperimentare «il tramonto del senso» per rendersi conto di guardare il mondo «senza gli occhi che vorrei» e di averle provate tutte — psicologia, religione e affettività varie — al supermarket della salvezza. Per arrivare, quindi, a intimarsi più volte «andiamo via»: questo è il tempo in cui maturare la pietà per i padri e per se stessi; questo è il tempo in cui smettere di evitare «l’abisso per paura di incontrarlo [e] di tradirlo quando il gallò canterà» (L’abisso); questa è la stagione in cui capire di «essere niente», denudarsi e affermare «oggi mi battezzo nell’oceano», nonostante «il dio dei ranger» metta in guardia da questo «mare per esperti» (Zuma beach).

Si tratta ancora una volta della vittoria del kairòs sul kronos? Dell’ennesima rinascita operata da colui che tradiamo quando il gallo canta? Da quel padre perdonando il quale riusciamo a perdonare noi stessi? Tali domande sono perlomeno legittime alla luce di metafore e immagini che Bianconi racconta di aver sempre «preso in prestito dalla Bibbia». Certo è che, per il cantautore toscano, interrogarsi sul «per» cosa vivono gli uomini — come il Papa spesso invita a fare — permette di «inventare... una preghiera contro il male», anche se all’origine di tutto vi è «una pulsione, un atomo opaco che... non è detto che sia morale» (Certi uomini). In altri termini, anche in questa «stagione di niente» si può «scoprire la verità»: che è possibile «vincere l’oscurità» e paradossalmente «vivere a tempo di andante» (Andante); che la morte diventa accettabile quando Bianconi realizza di non essere «mai stato più felice di così» (Zuma beach), intuendo che «io vivo / perché ho voglia di morire» (Certi uomini). Grazie a tale rinnovata forza interiore, si può sussurrare a tutti che in fondo «Francesco cerca il bene», che alla fine anche l’uomo del nostro tempo cerca il bene e, per questo, può finalmente sentire «il dovere di piantare almeno un albero / e curarlo con la fede, la conoscenza e la verità» (Il bene). Ciò significa anche che l’essere umano appartenente al regno «animale» desidera al contempo arruolarsi nella «guerra» dell’amore. Quella — se ascoltiamo Certi uomini e Andante — in cui si ha il coraggio di togliere tutto ciò che è di contorno a esso, per scrivere sui muri e gridare dai tetti che in questo «transumare umano» è possibile invecchiare al tuo fianco, facendoci da mangiare e proteggendoci dal male, fino a perderci di notte negli occhi amati, sino a «disintegrarmi nella luce insieme a te» (Zuma beach). A questo punto, nella «mistica stanza del tuo cuore», si potrà anche «pensare a Dio / che si perde in te» (Andante). Un Dio al quale il nostro cantautore confida di voler ora arrivare, come i mistici, «senza passare da religioni e ricerche», perché «forse anche questa cosa della ricerca di Dio è una menata da comodi figli di papà». Un Dio — sulla scia di Battiato — essenzialmente da «sentire»; un Dio di cui «accendi la lampadina» quando sperimenti che «sei così in pace con la vita da poter considerare di abbandonarla in quel momento». Perché l’abisso cantato, salmodiato da Bianconi, non è il male che sembriamo essere — che ancora (per poco) siamo — ma il bene, l’«abisso di misericordia» disse una volta Papa Francesco, che possiamo essere, che già siamo, per sempre.

di Sergio Ventura