Riedito «Il racconto del cielo» del cardinale Ravasi sull’Antico Testamento

Un viaggio tra deserti
mari e montagne

William Blake, «I tormentatori di Giobbe» (1790)
27 gennaio 2021

Quando sarà possibile viaggiare senza il cruccio del contagio, si raccomanda un salto a Meersburg, uno splendido borgo lacustre, con incantevole affaccio sul lago di Costanza. Da qualche parte, sulla collina, vedrete sbucare la casina rosa della nobile cattolica, Annette von Droste Hülshoff, la poetessa degli Ultimi doni. Sul dorso più alto della collina, à portée de regard, il vecchio castello di Dagoberto, col ponte levatoio, i camminamenti di ronda, il massiccio portone d’ingresso... Ma è alle spalle dello Zeppelin Museum, a un minuto esatto dall’Altstadt, il vero gioiello. Un gioiello nascosto, che il turismo di massa evita o ignora.

Si tratta della Galleria Biblica, uno di quei musei che gli addetti ai lavori definiscono «esperienziale», cioè a dire un luogo concepito per l’edutainment, l’intrattenimento educativo. Lì, è possibile ammirare una vera tenda nomade, simile a quella di Abramo, un giardino biblico, ispirato a quello che poteva essere il Gan ‘Eden, una casa d’argilla, affine a quella di cui parla il libro di Giobbe (4, 19.21): «abitatori di case d’argilla, cementate nella polvere».

Quando abbiamo letto, anzi riletto, in questo straziato 2020, come nel lontano e meno tormentato 1995 della prima edizione, Il racconto del cielo. La grande storia dell’Antico Testamento (Milano, il Saggiatore, 2020, pagine 304, euro 20), del cardinale Gianfranco Ravasi, abbiamo avuto la sensazione di trovarci nella Bibelgalerie di Meersburg, o di essere «saltati» dentro una di quelle belle raccolte di incisioni in acciaio, curate da Numa Pompilio Tanzini, negli anni Quaranta dell’Ottocento, con quelle nobili legature in pelle marrone, filetti e croci radianti, che pure chiamavano Gallerie Bibliche.

Il racconto del cielo ha il quadro esteso e riepilogativo di queste esperienze culturali d’ensemble, un po’ galleristiche, ma dà prova, al contempo, dell’applicazione alle fonti, dell’accuratezza aneddotica, della capacità d’allegazione, di rimando, alla musica, al cinema, alla poesia, alla filosofia, che tutti riconosciamo all’autorevole studioso Ravasi, prima ancora che al grande divulgatore.

La versatilità culturale dell’autore sposa perfettamente l’ampia gittata dell’influenza biblica su ogni forma d’arte. Ravasi è un maestro in quella che gli orafi francesi definiscono serti mystérieux, l’incastonatura invisibile. Ecco, che sulla sottilissima rete d’oro di uno dei tanti passaggi dell’Antico Testamento, incastonati insieme come pietruzze in una spilla piccolissima, troviamo Davide, Mozart, Carissimi, Scarlatti, Telemann, Sternberg, Donatello, Michelangelo, Georges Rouault.

Questo saggio è utile, in sostanza, tanto ai credenti, quanto ai non credenti; tanto a chi s’apra «da principio» alla conoscenza delle Scritture, quanto a chi desideri saperne di più, partendo da basi già apprezzabili. L’importante è che il lettore, chiunque esso sia, tenga bene il passo di un viaggio lungo e intensissimo, tra deserti, mari e montagne.

Raccomandiamo una veste corta, sportina di cuoio, bastone e borraccia alla cinta, come insegnano i vecchi vademecum del devoto peregrino. Il libro di Ravasi è un viaggio o, se volete, un diario di viaggio, scritto da un grande pellegrino della geografia mistica della Bibbia. Ma non si tratta soltanto, come tiene a precisare l’autore, di una «mappa nautica con aridi dati essenziali».

Ravasi è un studioso «romantico», al cui rigore non mancano mai slanci di partecipazione umana. Il suo Dio, del resto, il Dio della Bibbia, il nostro Dio, è, insieme, carnale e spirituale, sdegnato e innamorato, celeste e terreno, presente e assente. Il suo creato, una sconcertante miscela di ordine e stravaganza. È quasi impossibile parlare apaticamente di un Dio tanto complesso e tanto intenso; un Dio che, pur dicendosi «Padre», non esita a svelare le sue rahamîm, le sue «viscere materne» (come in Isaia 49, 15).

I personaggi, le situazioni, gli ambienti della «grande storia dell’Antico Testamento» sono caratterizzati da Ravasi con fulminanti scintille psicologiche e sociali.

Il racconto del cielo è anche e soprattutto il racconto di un cammino, il cammino di un popolo «santamente resiliente», come ha fatto notare il biblista americano Mc Lain Carr, investito di una missione religiosa, ma anche di un ricco patrimonio di simboli, di sapienza, di poesia, verso cui si sono orientate, per secoli, la cultura, l’arte e l’etica dell’intero Occidente. Il cammino di un popolo, che pare raffigurare, in una bizzarra syllepsis, l’anima del singolo credente, nel suo proprio tratto di strada su questa terra.

L’anima di ognuno di noi, per quanto piccola e miserabile possa sembrarci, ha molto in comune con le grandi anime della Scrittura. In certi casi, somiglia in tutto a quelle dei più intrepidi personaggi dell’Antico Testamento. Somiglia a quella di Adamo, imprigionata com’è nella cella del tempo, pur conservando, sempre, una scintilla di grandezza dell’Eterno. A volte, giunge a combattere Dio, a protestare, a gridare dinanzi al dolore umano e all’ingiustizia sociale, come quella di Giobbe e di Giacobbe. A volte, chiede lumi alla Saggezza, come quella Salomone. Altre volte, sembra legata, come lo fu il corpo di Isacco all’altare del Moria, in una sorta di ‘aqedah della materia. A volte, ride e si sorprende delle grazie, come Sara; altre volte si tormenta in «intima tempesta», come l’Abramo di Lutero. A volte, abbraccia il purissimo e misterioso Amore, come gli innamorati del Cantico. A volte, sprofonda nel fango, come Davide, come Mosé, per poi tornare al cielo, seguendo, passo, passo, la mappa del sogno di Dio.

di Roberto Rosano