Religio - In cammino sulle vie del mondo
La storia

Abbracciando un’altra Africa

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27 gennaio 2021

Dopo quindici anni di missione padre Carmelo Giannone, frate minore originario della Puglia, è arrivato nel borgo di Accumoli, nel cuore del cratere del sisma dell’agosto 2016
Un’altra realtà di emergenza e sofferenza e una speranza nel cuore: ridonare la forza di vivere alle persone che con il terremoto hanno perso tutto


Sae è la sigla che sta per “Soluzioni abitative in emergenza”. In pratica, le famose casette in cui vivono, ancora e ormai da quattro anni, molti dei terremotati del centro Italia. E una di queste casette da un anno è il convento di padre Carmelo Giannone, frate minore originario della Puglia, arrivato ad Accumoli, nel cuore del cratere del sisma a due passi da Amatrice, dopo quindici anni di missione in Africa. Insieme a padre Carmelo c’è un fratello laico, a condividere le attese e le speranze di tanta gente, nel pieno di un altro inverno lungo e difficile, con la neve alta fino a sessanta centimetri e il gelo che avvolge tutto, comprese le tubature delle caldaie che ogni volta tocca liberare per far arrivare un po’ di tepore tra il cucinino e la camera da letto dei bambini. Ma sulla porta della casetta-convento c’è sempre il sorriso largo di questo frate francescano di 49 anni, insieme a quello della sola vecchietta che spesso lo aspetta per la messa feriale nella chiesetta che pare uscita da un paesaggio da cartolina.

Sarebbe troppo semplice, però, dire a padre Carmelo che la sua Africa adesso è in questa landa della Sabina. E forse un po’ neanche tanto corretto, come fa capire lo stesso francescano raccontando del perché di questa scelta, esattamente missionaria come quella presa tanti anni fa con un volo per l’Africa: «Proprio quando ho iniziato a pensare di tornare, di staccare un po’ dopo tanti anni passati in Africa e quindi cercavo una periferia che mi consentisse di essere missionario in Italia, il vescovo di Rieti, Domenico Pompili, ha chiesto una presenza francescana in uno dei paesi distrutti dal terremoto. Non me lo sono fatto ripetere due volte, mi sembrava una chiamata nella chiamata. Ecco allora che ho deciso di tornare in Italia e continuare a fare quello che facevo in Africa, che non è aiuto umanitario ma essere presente nella vita di un fratello e condividere con loro i disagi. E poi, stando insieme se nasce qualcosa va bene, altrimenti si va avanti, ma senza l’idea del missionario che dà risposte che è una cosa in cui non ho mai creduto. Credo invece nel mio essere missionario anche nei carismi che Dio ci dona e che, mettendoli insieme, ci possono portare a costruire qualcosa. Noi frati non dobbiamo sostituirci alla gente, ma essere il ponte di unione, perché siamo itineranti e le nostre opere passano».

E nel suo cammino itinerante, padre Giannone ha incontrato per l’appunto i fratelli e le sorelle di Accumoli: «Per me “missione” non è Africa, ma è stare col fratello, vivere con lui e quindi andare nelle periferie. E le periferie — sottolinea il frate — possono essere indicate come terzo mondo, posti dove c’è la guerra, il disagio sociale, ma anche la gente piagata dal terremoto». Ma è chiaro che l’esperienza africana, da cui discende per l’appunto questa di Accumoli, a padre Carmelo è rimasta nel cuore: «Sono stato lì tanti anni e gli ultimi sette da padre provinciale, responsabile della provincia di San Francesco che comprende nove nazioni: Kenya, dove risiede il provinciale, Tanzania, Zambia, Burundi, Rwanda, Uganda, Malawi, Madagascar e Mauritius. Questi Paesi li ho visitati tutti, spostandomi in autobus o in aereo, nel segno dell’internazionalità della nostra missione. La presenza dei frati minori in Africa è iniziata nel 1986, storicamente nel nord e in Terra Santa. Negli anni ottanta i superiori decisero per l’appunto di aprire una missione internazionale, ovvero con religiosi provenienti da tutto il mondo a costituire la nuova provincia, facendo quindi passare questa idea internazionale della missione».

Nel frattempo, il concetto di missione è ulteriormente cambiato: «Ormai fortunatamente la Chiesa è presente in queste zone africane da cento anni, come Chiesa locale, con clero e religiosi locali, e quindi non si parla più di missione propriamente detta, di andare in un luogo dove non ci sono cristiani, ma l’approccio è un po’ diverso. E per noi francescani è stato quello di una vita fraterna in ambienti dove c’è tribalismo, lotte tra varie tribù o etnie. Il far vedere persone che vivono insieme, di diverse nazioni, è stato per noi un modo di evangelizzare».

Intanto è proprio l’Africa, e non solo la missione, che continua a cambiare: «Certo — aggiunge padre Carmelo — il continente nero sta cambiando tantissimo, intorno alle capitali e alle grandi città si vive una vita moderna, Kampala o Nairobi sono metropoli che non hanno niente da invidiare alle nostre nella parte centrale, il progresso sta arrivando anche lì. Alcuni frati locali mi dicevano che noi missionari gli abbiamo insegnato tante cose belle, ma anche alcune negative. Adesso lì trovi di tutto, il progresso nelle città, dove ci sono anche conventi più agiati, e miseria nei villaggi, con conventi più spartani». Sta cambiando anche la percezione del missionario, rispetto a quella che si aveva una volta. «Si sentono ripetere tanti slogan, tipo che adesso l’Africa è qui. E poi c’è il discorso sugli emigrati che sta inasprendo anche quello missionario, ma in alcuni casi lo sta pure rivalutando. E poi la questione di volerli aiutare a casa loro, che però spesso è vista in negativo, perché se vogliono un po’ di aiuti glieli mandiamo là, l’importante è che non vengano qui da noi. Ecco, oggi manca il valore del condividere insieme un ideale».

A proposito di cambiamenti, non sempre per l’appunto negativi, il discorso vira anche sulle giornate missionarie, quelle del mese di ottobre solitamente dedicato ma anche con le visite che i missionari amano fare nelle parrocchie di provenienza appena possono tornare. «Una volta erano più legate al fatto che siamo tutti una famiglia, aiutiamoli perché sono nel bisogno, ed erano valori belli, più genuini. Adesso la tematica va su tutto, sulla politica internazionale, sul discorso alimentare e su quello economico, la gente è più preparata e anche questo è positivo. Mentre prima bastavano delle foto, adesso c’è internet e certe immagini ognuno le vede quando vuole, e quindi anche il modo di approcciarsi alla missione è diverso». Restano comunque le opere, anche se pure da questo punto di vista la risposta di padre Carmelo è argomentata. «Per me missione non è creare opere, andare lì come il bianco colonizzatore che ha la soluzione ai tuoi problemi, ma è incontrare un’altra persona, condividere con lui la vita sul luogo, essere presente e con lui costruire qualcosa. Mi sono rimaste a cuore proprio le opere legate al territorio e alla gente e spesso dico: per voi la foto di un bambino è la foto di un bambino, per me invece quel bambino ha un nome, una famiglia, io lo conosco, vivendo con lui capisco i problemi. Per questo mi sono rimasti nel cuore anche i piccoli progetti, però partiti dal basso. Perché noi missionari passiamo, come le nostre opere se non hanno delle fondamenta. Oggi ci siamo e domani ce ne andiamo». Magari fino ad Accumoli, alla felicità delle campane che nello scorso Natale sono tornate a suonare e a richiamare la gente. Fosse anche quella sola vecchietta per la messa feriale tra le casette: «Celebro davanti a una sola persona, ma proprio questa è la ricchezza dell’esperienza, il donarsi all’altro anche se è uno solo, il poter dire: tu sei un valore per me, e quindi non sei solo. Io penso che ognuno di noi ha un valore costitutivo nel cuore. E per me è la compassione, la fraternità universale. Voglio vivere con persone che mi fanno scoprire il mio essere missionario, perché non è il luogo o il territorio che mi fanno missionario, ma la persona che incontro per strada. Così divento missionario, in Africa come ad Accumoli».

di Igor Traboni