Da Hitler a Pol Pot in un libro di Bruno Nacci

Uomini comuni
sulla frontiera del male

La filosofa, politologa e storica Hannah Arendt
25 gennaio 2021

Così lontano, così vicino. Sempre in agguato nelle pieghe di una metamorfosi che non riguarda solo personaggi del passato, il male mina e inquina anche l’attualità. Interrogarsi sull’origine del male, dunque, non si risolve in un esercizio retorico, fine a se stesso, ma si configura quale strumento di analisi funzionale alla comprensione della realtà presente sempre minacciata, e per questo, da monitorare e salvaguardare con un solido spirito critico e con una fervente passione etica.

È in questo contesto che si inscrive l’interessante e coinvolgente libro di Bruno Nacci Destini. La fatalità del male (Milano, Edizioni Ares, 2020, pagine 192, euro 16). L’autore fa da guida al lettore e lo conduce nel territorio del male visto e valutato attraverso cinque figure della storia responsabili di iniquità e nefandezze: Hitler, il generale cambogiano Pol Pot, il generale vietnamita Nguyen Ngoc Loan, Albert Speer, l’architetto di Hitler (per questo detto “l’architetto del diavolo”) e, il fatto potrebbe sorprendere, Seneca.

A queste figure corrispondono, nella tessitura del libro, altrettanti racconti. L’impostazione narrativa consiste nel fissare un momento preciso nella parabola di queste esistenze, cioè quando tali figure non erano ancora al culmine del potere o quando ormai il potere non lo esercitavano più. Tale metodo di esposizione si fregia, dunque, di un elemento di originalità perché presenta aspetti pochi noti, o ignoti, di questi uomini. Hitler viene descritto quando da giovane dormiva in un dormitorio per senzatetto e disegnava cartoline, mentre di Pol Pot si seguono gli anni universitari, quando si era imposto come un promettente calciatore.

Perché Seneca fa parte di questa lista nera? Prima del suicidio impostogli da Nerone, il filosofo scrive le sue ultime lettere in cui confessa — e questo esercizio introspettivo gli fa comunque onore — gli ingiusti atti compiuti. Nella missiva a Marco Anneo Mela dice di non essere stato nei suoi confronti un buon fratello, tanto meno un uomo probo. «Da bambino — ricorda — accusai un piccolo schiavo di aver mandato in frantumi un prezioso vaso greco che nostro padre aveva ricevuto in dono da un ricco mercante. Lo avevo urtato io quel vaso, mentre cercavo di deporlo a terra». Questo esempio può sembrare irrilevante rispetto ai crimini di cui si sono macchiate le altre figure registrate nella lista nera. Ma in realtà l’episodio acquista un significato illuminante in virtù di quanto scrive Seneca, qualche riga più avanti, nel fare un bilancio critico delle sue vili azioni. «Ora che sono vecchio e tutto questo sembra appartenere a un passato troppo lontano per essere indagato come gli atti di un processo chiuso per sempre, voglio che almeno tu sappia chi sono, anche se è ingiusto metterti a conoscenza di colpe che non cessano di essere tali solo perché si sono trasformate in un ricordo».

In questo passaggio è dato di ravvisare un doppio snodo. Anzitutto il fatto che il trascorrere del tempo rischia di diluire il peso delle colpe, a prescindere dalla loro gravità; poi spicca la dimensione della normalità che tenderebbe ad investire l’atto iniquo. Se si vive naturaliter nel crimine, è possibile accorgersi del confine che separa il bene dal male? Il libro di Nacci dunque non può non richiamare alla memoria il saggio La banalità del male di Hannah Arendt sul processo, a Gerusalemme, di Adolf Eichmann. Il vero problema di fondo, in quell’evento, fu rappresentato dal fatto che il gerarca nazista, compostamente seduto sul banco degli imputati, sembrava una persona normale. Si era macchiato di crimini contro l’umanità per spirito di obbedienza ai superiori dei quali non avrebbe mai osato discutere gli ordini. Sarebbe stato meglio che Eichmann, come osservò la Arendt, fosse apparso come “un mostro”, come una persona “fuori dalla normalità”. In questo modo il comune cittadino, sebbene con penoso e sofferto sforzo, si sarebbe fatto “una ragione” di quella perversa logica di morte.

In quest’ottica inquietante, il male si configura ancor più insidioso e velenoso, perché non ha bisogno di clamorose manifestazioni esteriori che ne tradiscano la presenza e la serpeggiante influenza. Sta in questa consapevolezza e nel desiderio di comunicarla il merito principale dell’opera di Nacci: indagare le origini del male significa aprire un abisso che richiede coraggio per fissarne le vertiginose profondità. Ecco allora che i cinque personaggi vengono inquadrati come «uomini comuni sulla frontiera del male».

Prima di perpetrare crimini sanguinari, Pol Pot, quando giocava a pallone, riscuoteva applausi anche dagli avversari. Le sue rovesciate erano diventate “leggendarie”. Agile e scattante, era capace di sollevarsi a mezz’aria in un attimo, “come un acrobata”, e quante liti provocava tra i difensori che si rimproveravano l’un l’altro di non essere stati capaci di fermarlo. Quando smise di giocare a pallone, Pol Pot divenne, dopo qualche anno, l’ispiratore e il responsabile del massacro di circa un milione e mezzo di persone, un terzo della popolazione cambogiana.

di Gabriele Nicolò