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Centomila ragazzi in Italia non escono di casa da anni

Non giudicare

 Non giudicare  QUO-019
25 gennaio 2021

Un progetto della Caritas per favorire il reinserimento


«Permetto un unico accesso, quello della mia sorellina di sei anni, la riconosco dal suo bussare gentile. Apro uno spiraglio e mostro la mia testa, senza parlare. Lei non mi chiede nulla e non mi giudica. Solo mi accarezza i capelli. Vedi, questo è l’amore assoluto». Michela, 20 anni, è rinchiusa nella sua stanza da oltre tre anni. In Italia, sono oltre 100.000 i giovani che decidono di ritirarsi dalla vita sociale senza avere contatti con il mondo esterno se non attraverso internet. Sono gli hikikomori, un termine giapponese che significa “stare in disparte”, hanno un’età che va dai 14 ai 30 anni e sono principalmente maschi (tra il 70% e il 90%), anche se il numero delle ragazze isolate potrebbe essere sottostimato.

Le cause sono diverse. Caratteriali, familiari, scolastiche, sociali. «Gli hikikomori sono ragazzi spesso intelligenti ma particolarmente sensibili e inibiti socialmente. Hanno una visione molto negativa della società e soffrono particolarmente le pressioni di realizzazione sociale, dalle quali cercano in tutti i modi di fuggire» spiega Rosanna D’Onofrio, psicologa e psicoterapeuta dell’Associazione Hikikomori Italia, nata per informare e sensibilizzare sul fenomeno, molto noto in Giappone dove si contano più di un milione di casi. «Non è una malattia mentale anche se con l’isolamento prolungato possono insorgere disturbi patologici».

Il disagio non riguarda solo le persone isolate ma anche i genitori, che si trovano a dover affrontare un problema di cui si sa ancora poco e che avvertono un sentimento di isolamento profondo e di grande frustrazione. Proprio per riempire questo vuoto è nato il progetto della Caritas di Roma, in collaborazione con l’associazione Hikikomori. «Abbiamo affrontato il fenomeno in un’ottica sistemica puntando sulla sensibilizzazione e sulla formazione di tutti coloro che sono in contatto con i giovani e che possono trovarsi in presenza di un ragazzo in ritiro sociale volontario», spiega Luca Murdocca, educatore della Caritas e coordinatore del progetto che, nel 2020, ha coinvolto 100 persone fra professori ed educatori nelle parrocchie. «Un primo passo verso la costruzione di una rete di sostegno funzionale al soggetto e alla famiglia in difficoltà per mettere in atto tutte le strategie di intervento mirate a una presa in carico personalizzata».

Ma cosa può fare concretamente il genitore di un ragazzo che si chiude dentro la sua stanza interrompendo ogni relazione e rifiutando qualsiasi tipo di aiuto? «Cercare di aggirare le barriere che il giovane ha eretto nei confronti del mondo sociale, evitando qualsiasi tipo di forzatura e ponendosi come interlocutore umile, empatico e non giudicante», risponde D’Onofrio. In pratica, non chiedere spiegazioni o fare pressioni perché vada a scuola, pulisca la sua camera, mangi. E mai togliergli il computer, che è l’unico mezzo di contatto con l’esterno. «Occorre soprattutto aspettare, la cosa più difficile. I genitori spingono per ottenere subito risultati che, però, rispecchiano i loro bisogni non quelli dei figli».

«Non è facile» afferma Elisabetta, mamma di Chiara che a 11 anni e mezzo si è rifiutata di proseguire la scuola. «Chiara è sempre stata una ragazzina brillante e studiosa. A un certo punto è crollata. Attacchi di panico, mal di pancia, malessere generale. Noi eravamo del tutto impreparati. Non sapevamo che fare. Una psicologa ci ha consigliato di riportarla a scuola forzandola ma questo ha scatenato ancora di più il disagio. Chiara ha cominciato a non uscire più di casa e ad avere problemi con il cibo. Scoprire l’associazione Hikikomori ci ha restituito la serenità. Sono tre anni che facciamo parte di un gruppo di auto mutuo aiuto con genitori che vivono le nostre stesse difficoltà e siamo seguiti da una psicologa. Lo scoglio più grande è stato quello di garantire il diritto allo studio di mia figlia che rischiava di essere bocciata per le troppe assenze. Con non poche difficoltà ho ottenuto che le fosse riconosciuta l’educazione domiciliare, una modalità di insegnamento prevista non solo in presenza di gravi malattie o disabilità ma anche per motivi psicologici ed emotivi. In questo modo ha potuto prendere la licenza media e con ottimi voti».

«Mi piace molto studiare ma mi spaventa stare in mezzo alla gente», spiega Chiara, che ora ha 14 anni. «Mi sento diversa dagli altri. I gruppi sono formati da persone che la pensano allo stesso modo, io invece non seguo la massa e non ho paura del giudizio degli altri. So che se mi impegno posso fare grandi cose. Sono ambiziosa, aspiro al successo ma, diversamente da quando ero piccola che volevo eccellere in tutto, ora penso che anche se sbaglio una cosa non succede niente». Chiara è iscritta al liceo Scienze Umane e ha un piano di studi personalizzato. Va benissimo, parla correntemente l’inglese e ha molti interessi, come la fotografia e i cani. «Il mondo per lei è sempre spaventoso ma parla di andare via di qui, un giorno. Noi rispettiamo i suoi tempi e le sue esigenze. Andiamo avanti insieme», dice Elisabetta.

Camminano insieme su un percorso senza indicazioni anche Carlo e la figlia Alma, 21 anni, ritirata dall’età di 14. Separato dalla moglie, Carlo si occupa da solo di Alma, una ragazza un tempo allegra, piena di gioia di vivere e molto affettuosa. In seguito a complesse vicende familiari, la ragazzina decide di lasciare la scuola e sospende ogni contatto con l’esterno. «La frustrazione che si prova è micidiale ed è facile perdere l’equilibrio», dice Carlo.

«All’inizio insistevo perché facesse quello che ritenevo giusto: uscire, frequentare la scuola, gli amici, poi ho capito che era inutile e che stavo perdendo la sua fiducia. Mi sono messo in discussione. Condivido con Alma le mie emozioni, lasciandola libera di farlo anche lei, senza aspettative e senza giudicare. Grazie a una psicologa che viene a domicilio e che ha creato un ponte di emozioni con lei attraverso il gioco è migliorata. La chiave di volta è questa, capire che ognuno ha la sua storia, che bisogna rispettare, senza perseguire obiettivi che riguardano solo noi stessi. Non c’è nessun figlio da aggiustare. Lei è perfetta e io le voglio bene così com’è. Glielo dico tutte le mattine prima di andare al lavoro».

«Bisogna mettersi nei nostri panni», suggerisce Antony, chiuso nella sua stanza dai 15 ai 18 anni. «Bisogna avere pazienza».

di Marina Piccone