Una nuova edizione delle «Baccanti» a cura di Giulio Guidorizzi

Euripide, Dioniso
e la saggezza della follia

William- Adolphe Bouguereau «La giovinezza di Bacco» (1884)
25 gennaio 2021

Sul finire di quel periodo storico che, nella nostra visuale di posteri, si staglia con l’epica sigla del v secolo a.C., un intreccio di fenomeni ed eventi segnalò ai cittadini di Atene che una memorabile stagione della civiltà greca si stava ormai inesorabilmente esaurendo. Il declino allora in atto si configurava — secondo la definizione di valore universale coniata da Papa Francesco — come un vero e proprio «cambiamento d’epoca». Sotto ogni profilo: politico, sociale, economico e soprattutto culturale. Nel 404 la vittoria di Sparta al termine della quasi trentennale Guerra del Peloponneso comportò l’imposizione di umilianti condizioni alla città sconfitta, fra cui la distruzione delle Lunghe Mura. Seguì una serie di traumatici rivolgimenti costituzionali, con il passaggio dal cruento regime dei Trenta Tiranni alla restaurazione di una democrazia “populista”, colpevole della condanna a morte di Socrate nel 399. I geniali architetti, ingegneri e scultori del siglo de oro ateniese scomparvero senza lasciare eredi alla loro altezza. Sopravvissero attive, nel secolo successivo, solo le scuole filosofiche, in primis di Platone e Aristotele, almeno sino all’egemonia macedone. Quale la vittima più illustre di quel processo di decadenza? Senza dubbio la poesia, la grande poesia tragica incarnata dalla triade stellare Eschilo – Sofocle – Euripide.

A segnare una cesura simbolica fra il vertice della creatività teatrale toccato dai tre drammaturghi ateniesi e l’appassita ispirazione dei loro epigoni fu la messa in scena, quasi contemporanea, delle ultime tragedie composte da Sofocle e da Euripide: rispettivamente, l’Edipo a Colono e le Baccanti. Per una singolare coincidenza, entrambi i drammi vennero rappresentati postumi. E con questo sincronismo calò metaforicamente il sipario su una vertiginosa avventura dell’intelligenza e della coscienza umane. Sofocle, che a novant’anni, alla vigilia della morte avvenuta nel 406, aveva concepito il seguito dell’Edipo re come una ventata di speranza metafisica a sostegno dei suoi concittadini angosciati, non poté provvedere alla rappresentazione del suo capolavoro, curata nel 401 da un nipote omonimo. Specularmente, intorno a quella stessa data, toccò a un altro erede, figlio o nipote omonimo, riportare come “regista” la vittoria nell’agone delle Grandi Dionisie, facendo rappresentare una trilogia che il quasi ottantenne Euripide aveva scritto poco prima di spegnersi nell’inverno del 407-406, mentre era ospite in Macedonia del re Archelao. Accompagnate dall’Ifigenia in Aulide e dal perduto Alcmeone a Corinto, debuttarono così nel teatro di Dioniso le Baccanti, la tragedia tanto ammirata da Goethe e da Nietzsche, «la più enigmatica, fors’anche la più grande» a giudizio dell’insigne grecista Dario Del Corno.

Fin dall’età umanistica, stuoli di classicisti, filologi, operatori teatrali, sedotti dal fascino perturbante di questo “copione”, si sono impegnati a tradurlo, interpretarlo, postillarlo, adattarlo al palcoscenico in sintonia con la sensibilità delle platee moderne. Un nuovo contributo specialistico alla decifrazione del controverso messaggio sotteso al testo euripideo (impaginato a fronte della “teatrabile” traduzione italiana) appare ora nella collana «Scrittori greci e latini» della Fondazione Lorenzo Valla, per merito di Giulio Guidorizzi, già docente nelle Università degli Studi di Milano e Torino, studioso di mitologia classica e di antropologia del mondo antico, autore di numerose pubblicazioni di successo: Euripide, Baccanti, (Milano, Mondadori, 2020, pagine lx -316, euro 50).

La tragedia intitolata alle seguaci di Dioniso/Bacco, alle cui voci sono demandati intermezzi corali ad alto coefficiente lirico, è ambientata a Tebe, una location spesso ricorrente nella mitologia e nella drammaturgia elleniche. Qui è giunto dall’Oriente, travestito da giovane straniero di bellezza androgina, il dio Dioniso. Il quale intende impiantare nella città d’origine il proprio culto misterico, i propri rituali, in sostanza il rispetto della propria divinità, legata alla nascita dall’unione tra Zeus e la tebana Semele, figlia del capostipite Cadmo, che nel frattempo ha ceduto la sovranità al nipote Penteo. Per punire l’avversione di Agave, sorella della defunta Semele e madre di Penteo, ostinata nel rifiutargli il riconoscimento del suo status divino, Dioniso l’ha resa preda di un delirante invasamento che ha contagiato anche tutte le altre donne di Tebe, spingendole a “baccheggiare” sulle alture del monte Citerone. Il vecchio Cadmo e l’indovino Tiresia si accingono a raggiungerle, piegandosi all’irresistibile richiamo del dio «dolcissimo e terribile», dispensatore dell’inebriante succo della vite, che dona «il sonno e l’oblio dei mali». Il giovane Penteo, invece, si oppone fieramente alla strategia dello straniero misterioso. Pretende di esercitare la sua dispotica autorità, ripristinare l’ordine pubblico in nome della ragione brandita contro l’irrazionalità, stroncare il furore orgiastico delle baccanti neofite, riassoggettarle alle loro umili mansioni domestiche. Arriva addirittura, accecato dalla hybris, a imprigionare il suo irridente antagonista. Ma il dio torna prodigiosamente libero, mentre una scossa sismica fa crollare il palazzo reale. E di qui in avanti si assiste a una radicale metamorfosi del sovrano, ormai soggiogato dalla potenza insinuante di Dioniso, che lo istiga a indossare un travestimento muliebre per salire sul Citerone e lassù spiare nel loro sensuale delirio la madre e le sue compagne. Senonché — secondo il macabro racconto di un messaggero — viene dalle donne invasate scambiato per un leone e squartato in un’esplosione di disumana violenza. Solo dopo il mostruoso smembramento del cadavere di Penteo, Agave torna in sé fino ad accorgersi, inorridita, che la testa da lei inastata sul suo tirso come presunto trofeo di caccia è quella del figlio. Giustiziere “mascherato” (sia nella finzione dell’ordito mitico sia nella realtà della recitazione scenica, con un gioco di effetti meta-teatrali), Dioniso, simile al re di Itaca nell’epilogo dell’Odissea e — perché no? — all’Edmond Dantès del Conte di Montecristo, ha consumato un’atroce vendetta, sia essa legittima o iniqua, contro la “sua” città (Tebe nello spazio della tragedia, ma allusivamente Atene nel contesto storico), chiamata infine a “convertirsi”. Il dio patrono dell’universo teatrale sembra così sancire il trionfo dell’irrazionale nei due poli opposti identificati da Guidorizzi: «Quello cupo e devastante della pazzia e quello che libera dai lacci e dilata la personalità». Ed è a questo secondo polo che, per stornare il primo, deve aderire una ragione retta e saggia. Perché, come canta il Coro delle Baccanti, «non è sapienza il sapere, / l’avere pensieri superiori all’umano».

Tutta la produzione drammaturgica di Euripide rispecchia la crisi della religiosità tradizionale, inseparabile dallo sfaldamento delle antiche piattaforme sociali, etiche e ideologiche alla base della polis. Denominatori comuni delle sue trame, che trasfigurano sullo schermo del mito uomini, donne e vicende del mondo reale, sono la complessità dei caratteri e l’ambiguità dei comportamenti, analizzati con una penetrazione introspettiva precorritrice della psicoanalisi di Freud e Jung. Ecco perché le Baccanti sfuggono a ogni tentativo di interpretazione univoca del loro ultimo significato. E si aprono piuttosto a diverse, plausibili piste di lettura. Come quelle tracciate da Guidorizzi nella sua Introduzione, a partire dal rapporto antropologico che riconduce la «follia sacra» delle Tebane in stato di trance parossistica ai rituali estatici di “possessione”, praticati con danze e al suono di flauti da conventicole femminili devote a Dioniso, sino a pervenire al nucleo più incandescente, più “genetico”, di questa e di ogni altra tragedia greca: «il disperato conflitto tra libertà» umana e «sovradeterminazione» imposta dal fato.

L’anti-eroe Penteo finisce per diventare una vittima sacrificale, anche se il suo sacrificio non riscatta nessuno e non risolve alcun dubbio, anzi infittisce le ombre. Eppure il suo destino ammette una prospettiva ermeneutica d’impronta pre-cristiana, in virtù di sorprendenti analogie formali rispetto al sacrificio salvifico di Cristo, messe in luce dal teologo e scrittore Divo Barsotti nel suo saggio Dal mito alla verità (Gribaudi, 1991). Prova ne sia che interi brani relativi al supplizio di Penteo e al compianto di Agave vennero incorporati in età bizantina, intorno al xii secolo, nel Christus Patiens: un centone di 2640 trimetri giambici, impropriamente attribuito a Gregorio di Nazianzo, che ripercorre il tracciato evangelico della Passione riutilizzando versi prelevati dal patrimonio letterario della grecità pagana.

di Marco Beck