«Tutte le cose della nostra vita» di Hwang Sok-yong, ambientato in una grande metropoli della Corea del Sud

Riempire lo spazio
tra un secchio e l’altro

Particolare dalla copertina del romanzo edito in Italia da Einaudi
19 gennaio 2021

Sempre lì, sull’orlo sottile della sopravvivenza. È così che vivono negli anni Ottanta del Novecento, in una grande metropoli della Corea del Sud, Occhiapalla e sua madre, mentre il marito — e padre — è recluso in un non meglio definito centro di recupero. Un giorno però arriva quella che pare essere l’occasione.

L’occasione è il trasferimento a Isola Fiorita, l’enorme discarica situata all’estrema periferia della città, che accoglie e sfama i più disperati tra gli emarginati. Gente come Occhiapalla e sua madre, che iniziano così la loro vita nel cuore di quell’odore infernale immediatamente interiorizzato, aggregandosi alle migliaia di persone in cerca di cibo e materiali riciclabili.

L’organizzazione del lavoro è gerarchica e precisissima. Ogni giorno vengono scaricate immondizie da 21 distretti differenti: i lavoratori sono divisi in squadre, ognuna delle quali si occupa di 3 o 4 di loro. Terminata la ricognizione, gli operatori della prima linea — perché anche la disperazione ha le sue classi sociali — vanno ad arrampicarsi su un altro cumulo scaricato, mentre gli operatori delle retrovie guadagnano le postazioni appena liberatesi. Nulla deve andare sprecato, i turni sono serrati. Ogni sgarro, ogni invasione di territorio e competenza viene punita; non c’è spazio per il caso.

È quindi innanzitutto l’enorme e brulicante discarica la protagonista di Tutte le cose della nostra vita (Torino, Einaudi 2020, pagine 176, euro 18, traduzione di Andrea De Benedittis) di Hwang Sok-yong (1943). Colui che è considerato il più importante scrittore coreano è, infatti, davvero capace di dare voce alla discarica con una prosa limpida, vera ma sorprendentemente aggraziata. Una voce singolare perché la discarica è, insieme, fonte di vita e fonte di morte.

Con lei c’è Occhiapalla, ragazzino curioso e disincantato insieme, che impariamo a conoscere mentre fa il suo ingresso in questo luogo camaleontico che priva gli individui della loro dignità. Un mondo altro, fatto di regole spietate che guidano persone prive ormai del nome (solo nomignoli a Isola Fiorita: Pelatino, Falco, il Barone…). Un ambiente durissimo ed estremamente pericoloso per quel che avviene lì dentro, e anche nel rapporto unidirezionale con il mondo esterno, che parla a Isola Fiorita solo attraverso i suoi rifiuti. Sono loro a segnare lo scorrere delle stagioni, le festività, i periodi di magra. Loro e null’altro. Perché oltre ai rifiuti, c’è solo il silenzio.

Quando gli adulti decidono di andarsene in città, al di là del fiume, a farsi un giro, scatta il rito obbligato della purificazione. Senza, non si supera il vallone. Ecco allora la doccia al bagno pubblico, ecco la vestizione con abiti presi in prestito alla lavanderia sul confine. Eccola, la frontiera tra noi e loro, tra quel che vale e lo scarto, tra la ricchezza e il nulla. E così per quelli di Isola Fiorita il riscatto — quel poco di riscatto immaginabile — può, paradossalmente, solo venire da dentro. Perché — come scoprirà Occhiapalla — nella sua sinistra benevolenza, la discarica può permettere ai più fortunati non solo di sopravvivere, ma addirittura di vivere. Dove vivere non è solo preoccuparsi di riempire lo spazio tra uno scarico e l’altro; tra un secchio e l’altro.

C’è infatti l’amicizia con Pelatino, una sorta di fratello minore acquisito. Un rapporto che nasce per necessità, evolvendosi condito da occhi sognatori e affetto sincero. La scena del passaggio del vallone dei due (reso possibile da un piccolo tesoro trovato accidentalmente) è di una commovente potenza: usciti dalle docce, finalmente puliti, i due bambini si guardano allo specchio. E si scoprono irriconoscibili. «Sul viso di Occhiapalla era tornato il colorito chiaro di una volta. (…) Con i loro indumenti nuovi, sembravano due ragazzi di buona famiglia di ritorno da qualche collegio privato. “Non ti riconosco quasi più” esclamò Pelatino rivolgendosi a Occhiappalla mentre uscivano dalla sauna. “Nemmeno io. Chi ti chiamerebbe più Pelatino ora?”. “Guarda che io un nome ce l’ho. Mi chiamo Yonggil”».

C’è la loro amicizia con un anziano padre e sua figlia. Pagine anch’esse di un’incredibile potenza poetica, dove l’amore infinito risponde a bullismo, razzismo e persecuzione. Perché è sempre e solo la trama delle relazioni a offrire calore, e una speranza di salvezza.

È un romanzo di lezzo e di poesia Tutte le cose della nostra vita. Un romanzo meraviglioso nella lucidità spietata e delicata della sua denuncia contro una società passata nel giro di pochissimo tempo dall’essere uno dei Paesi più poveri del mondo a una delle nazioni più industrializzate, con costi altissimi in termini di emarginazione economica, culturale e sociale. Vale per la Corea del Sud, ma anche per tutti noi. Quanto siamo disposti ancora a pagare? Per quanto ancora vogliamo sacrificare chi resta indietro, scarto, rifiuto non riciclabile?

di Giulia Galeotti