Il 19 gennaio 1921 nasceva Patricia Highsmith

Quel thriller d’esordio
che incantò Hitchcock

Una scena del film «Strangers on a Train»
18 gennaio 2021

Mai fidarsi degli estranei. Potrebbero indurti subdolamente, facendo leva sulla malia derivante da una nebulosa identità, a perpetrare atti malvagi che covavi dentro ma che, al dunque, non avresti mai avuto il coraggio di commettere. Può definirsi una sorta di trattato di psicologia il thriller d’esordio di Patricia Highsmith, Strangers on a Train (1950), in cui i due protagonisti ingaggiano una battaglia scandita da incalzanti dialoghi che vanno gradualmente a scavare nelle pieghe recondite del loro animo. Seduto in treno, meditabondo, Guy Haines si lambicca il cervello per studiare la migliore strategia diretta a ottenere il divorzio dalla moglie, ad esso contraria. Il suo affannato cogitare è bruscamente interrotto da Charles Anthny Bruno, che gli si siede di fronte. Uomo facoltoso e buono a nulla, ha in odio il padre che, senza tanti scrupoli, vorrebbe eliminare. Quando, sondando e risondando, scopre che Guy, con il quale ha nel frattempo stabilito un contatto di crescente confidenza, ha in odio la moglie che si oppone al divorzio, lancia il diabolico piano. Si offre di uccidere la moglie di Guy a patto che, a sua volta, Guy gli uccida il padre. Tale piano, se messo in atto senza sbavature, fornirebbe ad entrambi un alibi d’acciaio. Non si sono mai conosciuti, se non per un incontro casuale in treno, e in futuro avranno agio di fingere che non si sono mai conosciuti.

Il fattore inquietante di questo pur fascinoso meccanismo è che l’omicidio non risulta veramente necessario perché i due protagonisti raggiungano i rispettivi obiettivi: il divorzio l’uno, una vita senza lacci e condizionamenti l’altro. Il criminoso atto si carica così di un significato ancor più torbido. Viene a configurarsi infatti come un atto gratuito, e per questa ragione ancora più inquietante e spiazzante, che richiama il gesto gratuito di Raskolnikov in Delitto e castigo, il quale uccide una donna anziana per sfregio: non gli era simpatica, gli complicava la vita e lo offendeva. Per avere ragione di lei, sempre nell’economia della finzione letteraria, non era proprio necessario ucciderla. E quel gesto gratuito getta una luce sinistra sul comportamento umano e sugli abissi che esso, una volta infranto il codice morale e superati convenzionali infingimenti, può raggiungere.

Ma in Guy non si specchia solo la figura dell’eroe di Dostoevskji, ma anche la perturbante sagoma di un altro eroe letterario, ovvero quell’Oblomov, creatura di Goncarov, totalmente incapace all’azione e disposto a muovere un dito solo se fortemente sollecitato. Guy è apatico, egli stesso si definisce un vile. Vorrebbe agire, sa di essere sull’orlo del precipizio ed è consapevole che basta un solo passo per precipitare giù. Ma gli manca il coraggio di tradurre il proposito in realtà. Sarà Bruno a spingerlo, irretendolo in un vortice serrato, in quel precipizio.

Patricia Highsmith, con una prosa sincopata, talora secca e tagliente, segue il convulso processo psicologico dei due protagonisti, costruendo una tensione che si fa sempre più acuta e coinvolgente nel corso della narrazione. Eppure il libro, tanto più meritevole in quanto opera prima, non fu accolto con particolare favore sia dal comune lettore che dalla critica. Il perverso intrigo turbava. A farlo apprezzare nel suo effettivo valore ci pensò Alfred Hitchcock che si disse «incantato» dalla trama. L’anno successivo alla pubblicazione del libro, nel 1951, uscì il film dall’omonimo titolo, diretto dal maestro del brivido. La pellicola fu un successo e, di riflesso, lo fu anche il thriller della Highsmith. Ci voleva un grande film per far apprezzare un grande libro.

Ma Hitchcock, come ebbe a dire la stessa Highsmith, «giocò sporco». Il regista inglese, sempre alla ricerca di buone storie da trasformare in film, acquistò i diritti sul libro per soli 7.500 dollari, trattando tramite un intermediario che non rivelò mai che la persona interessata al giallo era il grande regista. La trattativa si concluse con un contratto firmato il 20 aprile 1950. La Highsmith biasimò la condotta di Hitchcock, che avrebbe potuto pagare molto di più e si era approfittato di una scrittrice allora sconosciuta. Tra l’altro in quell’epoca la pratica di usare intermediari anonimi era diffusa a Hollywood: se ne servivano sia i grandi studios sia i registi noti e affermati.

Hitchcock riuscì ad entrare in conflitto anche con il celebre giallista Raymond Chandler, cui aveva chiesto di collaborare alla sceneggiatura. A metà percorso, a causa di crescenti divergenze di vedute, la collaborazione fu interrotta. «Mi aveva scritturato per avere preziosi consigli, ma poi li rifiutava tutti, e alla fine ho detto basta» dichiarò uno stizzito Chandler.

Con le dovute variazioni, la trama del film ricalca il plot ordito dalla Highsmith. Certo è che la scena, verso il finale del film, della partita a tennis giocata dal protagonista, è una gemma della storia del cinema: essa si trasforma in un’angosciante lotta contro il tempo. Il movimento ritmico della palletta che scandisce, crudelmente, i secondi è da applauso. In questa pellicola, come in altre (Psyco , Frenzy), Hitchcock esplora il conflitto tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre, tra l’equilibrio e la follia. In questo scenario, segnato da contrasti e contraddizioni, svolge un ruolo importante il luna park che di questo caleidoscopico universo diviene l’icastico simbolo. È in un luna park che viene commesso il crimine ed è all’interno di questa cornice che si liberano le forze demoniache in balia delle quali l’uomo freneticamente si dibatte. Il parco dei divertimenti quale luogo in cui senza briglie si scatenano perverse pulsioni è un topos letterario, che va dal Faust di Goethe a La fiera della vanità di Thackeray. Come soggiogato da un contesto fatto di lazzi e di colori sgargianti, l’individuo si sente come trasportato in una realtà che non riesce a domare: al contrario, è da essa dominato tanto da procedere, come un sonnambulo, fino all’orlo dell’abisso per poi — dopo una inane sosta perché non gli arride resipiscenza —, cadervi. Inesorabilmente.

di Gabriele Nicolò