A sessant’anni dalla Carta di Gubbio per la tutela dei centri storici

Quanto è facile
sfigurare un paese

Wiliam Turner, «Paesaggio di Narni» (1837)
16 gennaio 2021

Sono passati sessant’anni dalla Carta di Gubbio per la difesa dei centri storici che ha avuto due aggiornamenti nel 1990 e nel 2016, con dichiarazioni integrative, pochi lo sanno. Così molto è stato salvato, ma molto è andato invece comunque perduto, manufatti singoli e insiemi: sono sempre in calo quelli integri, intatti. Immacolati: e difatti erano posti dai pittori di ogni tempo, quei borghi, tutti interi tra le mani degli angeli e dei santi o sotto il loro manto. Si è perso più patrimonio culturale dal secondo dopoguerra che nei primi quaranta anni del Novecento, malgrado le bombe dei due conflitti mondiali. Anche per le contese, perfino in tempo ritenuto di pace. Molto per le calamità naturali. Ma primeggia comunque l’opera minuta e continua di alterazione, con le demolizioni e soprattutto con le scriteriate aggiunte. Per quanto incongrue molto raramente vengono fermate e meno spesso ancora demolite. A Bettona da anni non si riesce a demolire un corpo abusivo realizzato in pieno centro tra due palazzi storici, pretendendo che quell’autorimessa sia diventata un utile elemento di sostegno. A Orvieto e nei suoi dintorni pare inarrestabile la nuova prepotente vocazione a discarica, perfino tra le “crete”, nei luoghi dipinti da Turner. Parecchio ha nuociuto l’idea distorta di limitare la tutela ai soli beni dichiarati di particolare importanza e di pubblico interesse (cosiddetti a sproposito e con insofferenza “vincolati”), mentre invece la legge menziona continuamente gli insiemi e i nuovi riconoscimenti. Ne ha patito l’edilizia storica cosiddetta minore. E poi le chiese, i palazzi, le mura, gli acquedotti, le strade, le piazze, i campi e il selvatico non sono soprammobili, carte da gioco. O avanzi di verdura in un minestrone, pezzi di frutta in una macedonia. Per Pasqua, in primavera, quando è possibile, ancora si fa la benedizione delle case, ma una volta molto più saggiamente si celebrava la maestà del paesaggio presso le edicole nei campi che promettevano sempre nuovi doni alla vita. Una malintesa correttezza ha scavato solchi profondi determinando la trasformazione dei beni immobili in beni mobili. Scomposti e fatti a pezzi. Come giocando con i dadi, si è preteso separare tra i crolli e gli smantellamenti (sempre giustificati per motivi di incolumità) le parti lavorate ad arte, da museo, da quelle semplicemente artigianali, da destinare a discarica (o al mercato antiquario). È quanto spesso si è fatto dopo i terremoti, amplificandone gli effetti, anziché rimediare. Si è deviato dai modelli virtuosi, praticabili, replicabili; ma purtroppo non replicati (e senza che ce ne fosse un solo motivo). Soprattutto col nuovo millennio. Alla fine del 1999, poco più di un anno dopo le ultime scosse di quella serie tremenda e interminabile, a San Francesco nella basilica restaurata si è celebrato il Natale. L’Umbria, il cuore spirituale e patronale dell’Italia e dell’Europa, deve ritrovare quella sua prontezza, quella sua forza, quella sua determinazione e quel suo coraggio. Gli spazi pubblici preindustriali sono tutelati cautelativamente sino a verifica, sino a prova contraria e le facciate degli edifici che li delimitano sono le loro quinte di pertinenza come per una scena teatrale; non sono quindi alterabili, anche se materialmente appartengono a edifici privati di non particolare pregio, non tutelati. Se la piazza, il sagrato, la strada, il giardino o il bosco è di tutti, quell’ambiente aperto è un monumento di interesse generale: nelle sue forme, nelle sue prospettive che si fermano certo e finiscono nei muri privati all’intorno, ma non senza averne salvato l’aspetto esterno. Si preferisce invece ripetere che per ogni singolo componente dell’edilizia debba risultare un pregio e una declaratoria di importante interesse pubblico. Pare ormai normale vedere un nuovo edificio sorgere in un ambiente di pregio. Si arriva a fingere che i problemi possano essere risolti con la qualità del nuovo, invocando a caro prezzo la firma di affermati architetti di presunta grandezza, pur di calare i cosiddetti premi di cubatura anche negli ambienti di interesse storico.

Per restare in Umbria, molti possono essere gli altri esempi ai quali guardare: virtuosi o meno. Ad Assisi in otto giorni dal 26 settembre al 4 ottobre del 1997 è stata messa in sicurezza la basilica superiore gravemente minata dalle prime due violente scosse, grazie al confronto in vivace dialettica tra Giorgio Croci e Paolo Rocchi, con la mediazione e la guida di Antonio Paolucci e di Mario Serio. A Norcia molti anni dopo non sono bastati più di due mesi — un margine otto volte maggiore rispetto a quegli otto giorni mirabili — per fare altrettanto e senza aver posto fasciature né puntelli in opera, la chiesa di San Benedetto è andata in gran parte distrutta. Ma da ponderare per la riflessione non c’è solo il diverso corso che possiamo imprimente con la nostra risposta alle tragedie. Ci sono anche i paradossi. A Otricoli c’è una delle realtà archeologiche più integre che si possano ancora ammirare in perfetta armonia tra storia bimillenaria e natura. Ma c’è ovunque chi si ostina nel sabotaggio, aggiungendo edifici del tutto incongrui e per giunta non necessari.

Nel Novecento, con la costruzione della centrale e della diga, abbiamo perso le “pile” di Augusto, i resti del ponte sul quale la Flaminia attraversava qui il Tevere, fino alla costruzione di quello sistino. Anche oggi lavori inutili e dannosi che mai verrebbero concessi ad un privato, tanto meno in un contesto pregiato e unico del genere, avvengono invece tranquillamente ad iniziativa pubblica senza che si dica nulla. Sarebbe bene, a sessant’anni dalla Carta umbra, smettere di giocare una partita alla volta rimettendola alla cieca alla fatalità, alla sorte. Come se mai si fosse discusso e lavorato a Gubbio. E il piano di Astengo per Assisi? Vogliamo dimenticare anche quello? Prudente sarebbe finalmente manipolare meno, coordinarsi un poco, uniformarsi ai principi che proprio l’Umbria ha raccolto, fatto confluire, ordinato, mostrato di saper seguire, generosamente offerto a tutti: rinunciare fermamente alle contaminazioni e ai contagi. Non è vero che ogni epoca abbia sempre avuto modo ed abbia tuttora diritto di aggiungere le sue opere ai resti di quelle precedenti. Non ovunque.

È una pretesa volgare e approssimativa, nuova e insensata, una immensa fuorviante bugia. C’era il taglio delle mani e la morte per chi avesse danneggiato i monumenti, oltre alle multe salatissime e ai tratti di fune. Perciò non ovunque. Non era vero prima, non è possibile ora, meno che mai potranno farlo altri poi.

di Francesco Scoppola