Silenzi e fragore di Francesco Cossiga

Al confine tra forza
e giustizia

Francesco Cossiga
16 gennaio 2021

Giampiero Guadagni, cronista politico e caporedattore di «Conquiste del lavoro», ricostruisce la personalità dello statista sassarese nel libro Tre minuti, trentuno secondi. Francesco Cossiga: i silenzi e il fragore (Venezia, Marcianum Press, 2020, pagine 173, euro 16). Il titolo fa riferimento al tempo impiegato dall’allora presidente della Repubblica per leggere il suo messaggio di dimissioni dalla carica.

«E così, non potendo far sì che ciò che è giusto fosse forte, si è fatto sì che ciò che è forte fosse giusto». L’amara constatazione di Blaise Pascal racchiude l’esperienza che la maggior parte degli uomini nel corso della loro esistenza, prima o poi, si trovano a vivere. Alcuni la rifiutano e la contestano (ricavandone pietre). Altri ne fanno una compagna di strada o addirittura una regola di vita. Che Francesco Cossiga sia da iscrivere a una o all’altra di queste due categorie è una domanda alla quale non si è ancora data risposta soddisfacente, posto che sia legittimo interpretare i più intimi moventi delle scelte di una persona.

Ad ogni modo, che si chiami “adattamento” o “ragion di stato” il tema percorre come un fiume carsico gran parte dell’esistenza del politico sassarese divenuto presidente della Repubblica dopo aver ricoperto la carica di ministro dell’Interno all’epoca del rapimento di Aldo Moro. Per questo Giampiero Guadagni, cronista politico, caporedattore di «Conquiste del lavoro», nel suo libro cita la frase del filosofo francese estratta dai Pensieri non solo per raccontare un aneddoto che vide protagonisti l’uomo che diventerà capo dello Stato e il suo corregionale Beppe Pisanu (fu quest’ultimo a usare la frase in questione giudicando sarcasticamente l’operato di quello che diverrà il “picconatore”) ma per fornire una chiave di lettura dell’azione politica e insieme della vicenda umana di Cossiga.

Del resto l’autore, che si avvale nel suo volume di diverse testimonianze, fra tutte quelle di Francesco Bongarrà, già cronista dell’Ansa dotato di un particolare rapporto di amicizia con il politico sassarese, parte da un’intuizione psicologica intrigante: quella secondo cui l’uomo, provato dalla vicenda del rapimento Moro, dalla linea della fermezza che costò la vita all’esponente della Democrazia cristiana, abbia maturato nel corso del tempo una sua intima elaborazione del lutto e del senso di colpa, rendendosi interprete e quasi incarnazione del pensiero politico dello statista ucciso dalle Br. Di più, traducendone in pratica le intuizioni e accelerando un processo di riforme di cui il sistema non riusciva ancora a vedere l’ineluttabilità. Ipotesi intrigante, come si è detto, che meriterebbe ulteriori approfondimenti, a patto tuttavia di considerare legittima un’analisi psicanalitica post mortem condotta su una personalità comunque complessa e articolata, nella quale la peculiare sensibilità e debolezza psichica giocano per forza un ruolo essenziale.

Cosa avrebbe potuto essere Cossiga, scrive ad esempio Mario Segni nella prefazione al libro, «se la sua multiforme cultura e la sua straordinaria intelligenza fossero state ancorate a percorsi più stabili e lineari...», considerando anche, come ricorda Giuliano Amato, che «aveva un bagaglio culturale immenso, un cervello da far apparire modesto un motore di ricerca di Google»? Ma ci si potrebbe anche chiedere: cosa avrebbe potuto essere Cossiga se le sue scelte fossero state diverse, se il giusto fosse diventato forte e non viceversa; se il ministro dell’Interno ai tempi del rapimento Moro non fosse fatalmente diventato, come ha osservato Marco Damilano, alla fine, «un picconatore fuori tempo massimo» o addirittura un «populista ante litteram»? Domande alle quali ognuno può abbinare le sue personali risposte, magari leggendo fra le righe dell’interessante libro di Guadagni. Di certo, dai populisti Cossiga differisce in quanto elemento pienamente inserito e costitutivo dell’establishment, perfetto conoscitore della macchina politica e della comunicazione così come degli anfratti più remoti del palazzo e delle sue appendici, del ventre molle di un sistema che sapeva essere ormai marcescente. Un uomo di stato e delle istituzioni, insomma, picconatore non contro lo stato né contro le istituzioni. Fino a quando, forse, si è trovato contro se stesso. Una dissociazione che spingerebbe per una interpretazioni psicanalitica dell’azione dell’ex capo dello Stato ma che, ancora una volta, non è sufficiente a fornire il ritratto fedele di un uomo il quale, come molti, alla fine di una parabola esistenziale o professionale sente la necessità imperiosa di mettere ordine alle proprie cose. Strillando o osservando un silenzio fragoroso. O parlando poco: tre minuti e 31 secondi, appunto, il tempo impiegato a leggere, fra la sorpresa di tutti, l’ultimo stringato messaggio alla nazione da presidente della Repubblica. Disse lo stesso Cossiga in una delle ultime interviste: «La grandezza politica dell’uomo non è necessariamente legata alla sua statura morale. Conoscere il male per averlo frequentato: è questa la caratteristica dei grandi leader politici come dei grandi santi». I quali, va da sé, hanno frequentato il male senza rendersene complici.

di Marco Bellizi