Il 13 gennaio di ottant’anni fa moriva James Joyce

Tra universale e particolare

 Tra universale  e particolare  QUO-009
13 gennaio 2021

Nonostante la bipartizione sancita dal Government of Ireland Act 1920, bisogna convenire con Dillon Johnston che il 1941 fu un landmark year nell’esperienza storica, sociale, politica e culturale dell’intera Irlanda: un anno, cioè, che ne marcò il profilo identitario, il territorio simbolico, le prospettive di crescita e sviluppo. Proprio nel 1941, infatti, tutta l’Isola di Smeraldo visse gli effetti dolorosi della sua neutralità nella cornice del secondo conflitto mondiale, della collaborazione dell’Ira con le spie naziste, del massacro prodotto nell’Irlanda del Nord con il cosiddetto Belfast Blitz dalle incursioni aeree tedesche, che in quello stesso anno lasciarono il segno anche sulla neutrale Dublino.

È inevitabile che anche il profilo, il territorio e le prospettive della letteratura irlandese in lingua inglese siano segnati dalle profonde ferite prodotte da uno scenario tanto sconvolgente, alle quali si aggiunsero quelle inferte dalle insostituibili perdite dei due numi tutelari più autorevoli e celebrati delle lettere irlandesi. A quella di William Butler Yeats (1865-1939, Premio Nobel per la Letteratura 1923), che due anni prima aveva ulteriormente segnato il forzato inizio di una nuova consapevolezza poetica, si aggiunse, infatti, proprio nel 1941 quella di James Augustine Aloysius Joyce, la cui vita terrena era cominciata a Dublino il 2 febbraio 1882. Come ipotizzano Harold Bloom e Bernard Benstock, data di nascita davvero simbolica, questa, secondo lo stesso Joyce, per la ricorrenza della Festa della Candelora (2 febbraio) subito dopo quella di Santa Brigida (“Maria dei Celti d’Irlanda”, 1 febbraio) e per la sua capacità di esprimere fin dai primi giorni di vita di Joyce quella sua propensione a incrociare universale e particolare, sacro e profano, quotidiano ed eterno che gli fece dire una volta «non ho mai conosciuto una persona noiosa».

Ottant’anni, dunque, sono trascorsi da quel 13 gennaio 1941 in cui Joyce si spense a Zurigo. Non li dimostra? O forse sì e non li porta neppure benissimo? Dipende ovviamente dalla prospettiva che si sceglie di adottare per interpretarne il significato. Tra i fautori di un invecchiamento polveroso e deformante, c’è chi, come Bruno Gambarotta, gli ha attribuito nel 2010 la poco incoraggiante definizione di «indecifrabile Joyce» o chi, come il comico Federico Basso in una puntata di Zelig del 2011, lo ha eletto a stantio campione dell’astruso, vestendo i panni di un tale Gualtiero Boselli, critico giornalistico de «Il Mattone». Rivista di edilizia e letteratura russa, impegnato in un’insulsa conferenza sull’uso della punteggiatura nei primi romanzi dello scrittore irlandese.

Sull’altro versante della barricata, c’è invece chi, come Claudio Magris, lo considera un sempreverde dell’esperienza letteraria occidentale, soprattutto perché «si impara ad amare l’Irlanda da Joyce, che l’ha lasciata e criticata ferocemente, molto di più che da tanti romanzi irlandesi pieni di ragazze dai capelli rossi e di prati verdi». Come spesso accade nella vita, in medio stat veritas anche quando si esaminano gli «interminati spazi» della letteratura. Joyce è inevitabilmente datato e proprio per questo inevitabilmente appassionante. La sua distanza dalla nostra contemporaneità ci obbliga e ci sfida a incontrarlo sul terreno della sua inesauribile testualità.

Lo è, innanzitutto, per la sua geniale e personalissima declinazione del modernismo letterario: quel modo nuovo — per noi faticoso ed esigente — di esprimere «la realtà della [sua] esperienza», grazie al quale il soggetto creatore non può evitare di rielaborare materiali ricevuti dal passato, ma, facendolo, decide anche di correre il rischio di impegnare la comunità dei suoi lettori-destinatari al di là delle regole istituzionalizzate dalle consuetudini comunicative per «forgiare nella fucina della mia anima la coscienza increata della mia razza» (A Portrait of the Artist as a Young Man, 1916).

Joyce è datato e appassionante anche perché il «contesto nel [suo] testo» (per citare Leone De Castris) ci impone sia la Trieste del suo esilio, sia la sua Dublino nella transizione tra Ottocento e Novecento. Coerente con la sua visione polifonica, egli scelse tanto di commiserare quest’ultima, quanto di trasfigurarla nel suo Ulysses, pubblicato nell’annus mirabilis della letteratura modernista in lingua inglese (1922), il cui testo incrocia il 16 giugno 1904 (il celebrato Bloomsday) del protagonista, Leopold Bloom, con le mitiche temporalità dell’Odissea omerica.

Qualcuno lo ha definito il «Picasso della letteratura», forse mutuando un’espressione che non solo Claude Simon (Nobel per la Letteratura 1985) impiegò per William Faulkner (Nobel per la Letteratura 1949), ma che indica anche l’aspirazione più alta della scrittura modernista di Gertrude Stein (1874-1946): è espressione utile se il riferimento a Picasso sta per la teoria bachtiniana dell’eteroglossia, cioè (breviter) per la tendenza del romanzo di divenire territorio di contatto dialogico tra i più diversi piani del discorso culturale e storico-sociale.

E che l’eteroglossia sia la cifra distintiva — e, ribadisco, per noi ulteriormente faticosa ed esigente — di questo capolavoro (più citato che letto, ahimè) e della scrittura del suo creatore lo dimostra anche il ruolo che riveste l’economia (anche irlandese) nel tessuto narrativo di molti suoi episodes: ad esempio, in Nestor (Episode 2 ), in cui Stephen ne dialoga con Mr. Deasy; in Calypso (Episode 4 ), la cui “art” è “economics” secondo il famoso/famigerato schema di Stuart Gilbert; e, soprattutto, in The Cyclops (Episode 12 ), in cui Joyce, pur richiamando l’Inghilterra alle sue responsabilità, riconosce anche le colpe degli irlandesi, che, si diceva nel 1907, «gridano “morire per l’Irlanda”, ma nessuno lavora per lei».

Dobbiamo, in conclusione, prepararci nel 2021 a un ennesimo anno joyciano, come già lo furono il ReJoyce Dublin 2004, il 2012, il 2014, il 2016 e come lo sarà senza dubbio il 2022? Se questo è il nostro destino, auspichiamo che sappia finalmente offrirci occasioni di approfondimento e di revisione rispetto a modalità di lettura inadeguate e a interpretazioni spesso sclerotizzate, ideologizzate e, comunque, non più sostenibili.

di Enrico Reggiani