Quanta immaginazione c’è nella realtà

La verità della fiaba e il tradimento del simbolo

«La Bella e la Bestia» (2017)
13 gennaio 2021

«È una realtà che spaventa un po’ / una poesia piena di perché e di verità». Col suo linguaggio semplice la fiaba da sempre prende sul serio il mondo delle cose e dei sentimenti. Nel caso di quel capolavoro assoluto che è La bella e la bestia l’autore della canzone che è al centro della resa cinematografica del 2017, in perfetto accordo col senso della storia, sottolinea con queste parole l’irruzione dell’amore nella vita della protagonista e senza perdersi in elucubrazioni o sterili psicologismi, evoca la potenza della cosa in sé: l’avvenimento, il mutamento che suscita nel cuore appunto de la bella che diventa simbolico perché racconta un’evoluzione, un non ancora che si fa reale e attraversando tanti perché finisce per attingere la verità del sentimento.

La fiaba quindi fa il suo mestiere, che è quello di elevare una storia a vicenda simbolica, invitandoci a entrare nel mondo dell’immaginazione per fare provvista di verità, per confrontare il nostro vissuto sentimentale, di norma trascurato o peggio ancora travestito di opportunismi o rimosso, con la sua essenzialità primordiale, il suo illustrare cose con la lettera maiuscola in un mondo in cui si risolvono e puntano a una definitività.

Amore, sentimento, ma anche dono di sé, rinuncia: tutti temi che la fiaba ci squaderna senza ammaestrare ma facendoceli vivere nel teatro dell’immaginazione come storia che progressivamente si compone davanti ai nostri occhi .

Sono anzitutto storie, le fiabe, alle quali, però, molti di noi guardano spesso con degnazione e condiscendenza, relegandole in un’infanzia che hanno tagliato via nell’illusione di crescere privandosene.

Ma l’uomo, tutto intero, l’uomo cioè che si sviluppa dal bambino e ne mantiene nel migliore dei casi il meglio, l’uomo, dicevo, è animale simbolico e i simboli restano lì a campeggiare nell’inconscio per poi irrompere di quando in quando nella realtà. E il problema, il vero problema è che quando ci si presentano davanti non hanno più alle spalle una storia, diventano strumento vago ma terribile di rivendicazione, di lotta con e nella realtà.

Basta rivedere le immagini tragiche e assieme grottesche dell’assalto a Capitol Hill per rendersi conto di come maneggiare spregiudicatamente i simboli dentro la realtà diventa fonte di violenza cieca e che pare legittimarsi proprio nella sua virulenza simbolica, ma assolutamente estemporanea.

E qui dobbiamo tirare dentro Schiller e le sue Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, un testo, pubblicato nel 1795 che dovrebbe essere obbligatorio in tutte le scuole di ordine e grado. Sintetizzando banalmente e in poche parole, il mondo dell’immaginazione per lo scrittore tedesco è come quello del gioco. Aspira a una bellezza inventiva in una sorta di teatro di apparenze dove però l’uomo sperimenta la libertà.

È qui che l’uomo è pienamente uomo, quando cioè è svincolato dalla materialità e dalle contingenze. Attenzione, però, conclude Schiller, con questa bellezza, con questo materiale simbolico che abbiamo esperito nell’immaginario l’uomo può solo giocare, senza trasportarlo nella vita reale. Nella sua memorabile prolusione al convegno del Comitato internazionale per la letteratura giovanile di Tokyo del 1986, Michael Ende esemplificava così la riflessione di Schiller applicandola alla ricezione di uno spettacolo teatrale.

«Se state camminando per la strada e vedete un tizio che butta per terra una donna, vi trovate a prendere una decisione di carattere morale: potete provare a chiamare aiuto o a intervenire personalmente per aiutare la donna, o far finta di nulla e proseguire. Se invece siete a teatro e assistete all’uccisione di Desdemona, non soltanto non dovete intervenire ma vi gustate in un certo senso l’omicidio, nella consapevolezza che si tratta di un gioco, che l’intero procedimento si svolge nell’immaginario per cui il bene e il male sono ugualmente salvaguardati. Per la durata del gioco, in sostanza, vi trovate al di fuori delle necessità morali». Solo però, spiega più avanti, nel «gioco dell’immaginazione».

L’uso disinvolto, a tratti feroce, e disincarnato del materiale dell’immaginario conduce invece inevitabilmente a una confusione dei piani, a un’irruzione dell’aspetto corrusco del simbolo nella carne. L’origine di questo travisamento, di questo tradimento della vocazione simbolica dell’essere umano è però da spostare a monte, nella rimozione dell’idealità classico romantica per cui l’immaginazione è immersione autentica in un mondo fittizio in cui però si può accumulare energia creativa da riversare successivamente nella realtà.

Bollata irrimediabilmente come fuga dal reale l’immaginazione è stata declassata a ingrediente da gioco di ruolo, a espediente per stordire il fruitore di una pellicola cinematografica, a bellezza pornografica e superficiale, mai generatrice di verità. Tolkien in un’altra memorabile lecture, quella oxfordiana del 1936 sulle Fiabe, ci ricordava che qualsiasi ingegnere, se avesse letto più fiabe, sarebbe in grado di costruire edifici più belli e non solo utili. L’immersione nel regno dei simboli pare dire l’autore del Signore degli Anelli genera quindi bellezza indiretta, ma necessaria, da imparare e perfezionare nella vita. Ecco: vedere manifestanti con bandiere di secoli remoti e cimieri cornuti ci ha ricordato come l’uomo più che mai oggi abbia bisogno più che di informazione, di formazione alla realtà e al significato di quei simboli tramandati attraverso una storia eppure ogni volta rinnovabili e non da esibire come relitti di un passato per generare solo violenza, tanto atroce quanto assurda.

di Saverio Simonelli