Sussidio della Cei per la Giornata del 17 gennaio

Insieme contro ogni vanità
guidati dal Qohelet

Johin William Waterhouse, «Vanity» (1910)
13 gennaio 2021

Un anno, quello passato, connotato da dolore e morte che la pandemia di covid ha gettato sul mondo intero. Un anno che ha fatto sorgere nell’animo umano molte domande sul senso della vita davanti al comune destino della morte affrontate approfonditamente nel libro biblico del Qohelet. Da qui è partita la Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei nell’elaborazione, del sussidio per la trentaduesima Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei che si celebra il prossimo 17 gennaio, intitolato «Il libro del Qohelet dalle cinque Meghillot», in cui sono raccolte le riflessioni del vicepresidente dell’Assemblea dei rabbini d’Italia, Giuseppe Momigliano, e di don Luca Mazzinghi, docente di Antico Testamento alla Pontificia università Gregoriana. Il sussidio costituisce la parte conclusiva del ciclo che in questi anni ha accompagnato l’evento e basato sulle cinque meghillot, termine con cui si indicano libri che vengono letti essenzialmente a scopo liturgico, durante alcune festività ebraiche: nel 2017 è stata la volta del libro di Rut, nel 2018 si è preso spunto dalle Lamentazioni, nel 2019 si è proseguito con il libro di Ester, mentre l’ultimo appuntamento è stato scandito dalle riflessioni sul Cantico dei Cantici.

«La pandemia ci ha afflitto — scrive nell’introduzione il vescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino, Ambrogio Spreafico — ponendoci di fronte alla morte e alla fragilità dell’essere umano, che si è trovato a fronteggiare un male inatteso, mostrandosi impreparato e privo dei mezzi necessari per sconfiggerlo alla radice, nonostante i progressi della scienza». Ma ancor più ha capito, sempre di più con il passare dei giorni, che, come ha affermato Papa Francesco nel silenzio di piazza San Pietro lo scorso 27 marzo, «nessuno si salva da solo». È il limite della sapienza, cui fa riferimento il Qohelet fin dall’inizio quando parla della vanità delle cose create dall’uomo e anche della sua fatica nella ricerca del vero. Una fatica a cui non si sono sottratti, pur nel tempo difficile del terribile contagio, sottolinea il presule, gruppi di lavoro appartenenti alle due fedi che hanno collaborato alla presentazione dell’ebraismo nei testi per l’insegnamento della religione cattolica, così come sono continuati a distanza conferenze e incontri di dialogo tra esponenti delle due religioni. Questo perché, «il dialogo ebraico-cristiano non può prescindere dalla conoscenza dell’ebraismo come realtà vivente oggi e non solo come necessaria “radice” della fede cristiana» aggiunge Spreafico. «Insieme dobbiamo proporre nuove strade e ponti per il dialogo anche virtuali. Insieme dobbiamo costruire un nuovo linguaggio che ci aiuti a raggiungere le nuove generazioni per crescerle insieme nel rispetto dell’altro», contro ogni pericolosa recrudescenza di antisemitismo, ha precisato il vescovo.

Un dialogo che continua ma che non si traduce in un parlarsi limitato a pochi, bensì in riflessioni sulla precarietà dell’esistenza umana che ognuno è invitato a fare per trarre insegnamenti sul futuro, agendo secondo il volere di Dio. Anche il Qohelet, inizialmente, si propone di sperimentare la via della sapienza, quella che tenta di comprendere e di spiegare il senso della vita, argomenta Momigliano, accorgendosi poi dell’inutilità dello sforzo poiché «tutto è vanità e un correre dietro al vento» (2, 17). L’uomo si trova spesso in molteplici casi della vita di fronte alla imperscrutabile volontà divina che la mente non è in grado di comprendere e di giustificare, osserva il rabbino. Ecco quindi la vacuità della rincorsa alle ricchezze che procurano affanni e infelicità quando è invece doveroso dedicarsi con fervore e dedizione al Creatore nel proprio lavoro, in ogni momento della giornata. «Al mattino getta il tuo seme e alla sera non far posare la tua mano», recita il Qohelet che invita ancora oggi, non solo ebrei e cattolici, a cogliere finché è possibile la bellezza della luce e del sole evitando crucci, collera e tristezze. L’espressione “Splende il sole e tramonta il sole” che nel testo sembra descrivere l’inesorabile, monotono succedersi dei giorni e del tempo rappresenta invece il simbolo della benevola preoccupazione del Signore che per ogni giorno concluso ne fa sorgere subito un altro. L’attualità del libro biblico viene ribadita da Momigliano citando il pensiero dello studioso Yehuda Brandes, presidente dell’Herzog College, il quale sostiene come il testo biblico evidenzi l’assurdità di ogni scelta di vita e di principi materiali posti come valori assoluti che conducono a una sorta di deleteria idolatria. Solo riconoscendo, ancora una volta, la “vanità delle vanita”, è possibile aprire la via a una sincera ricerca in cui l’uomo, di fronte alla propria coscienza, senta anche di trovarsi di fronte a Dio. Che è presente anche nel dolore e invita ognuno a comprendere ciò che ha realizzato nella vita, a «interpretare il senso di vuoto e di smarrimento e a pervenire a scoprire la verità e quindi l’autentica gioia proprio attraverso questa ricerca», conclude Momigliano.

La tristezza e lo scoramento devono pertanto essere paradossalmente il terreno fertile su cui coltivare, una delle tante metafore presenti nel Qohelet, la felicità futura. Nell’impegnativo percorso verso di essa si arriva a scoprire che esiste un “mistero del tempo” nell’opera divina, scrive nel sussidio don Mazzinghi, anche se impenetrabile all’animo umano. Sembra che il libro della Bibbia ci educhi al pessimismo rimarcando che è tutto un soffio ma dietro l’affermazione si nasconde «un’inattesa chiamata alla gioia» descritta in tutti gli aspetti in sette passi del libro: quest’ultima sarà reale se si riuscirà ad accogliere la vita come un dono di Dio. L’Onnipotente, infatti, tiene occupati gli uomini con la gioia e risponde agli esseri umani «con la gioia del loro cuore» (5, 17-19). Se non si apprezzano le piccole “scintille” di felicità che vengono ad arricchire la vita di tutti, tutto si perderà. In sostanza, puntualizza, se noi accettiamo il “rischio di vivere”, come suggerisce il Qohelet, non perderemo mai la gioia perché essa è lo specchio di come rispettiamo il modo misterioso in cui Lui agisce nel mondo, sentendolo presente. Anche con lo strumento della preghiera, soprattutto quella in silenzio, in un dialogo interiore tra umano e divino. Ecco quindi che ancora una volta viene posto l’accento sulla modernità del testo biblico: lo scopo del suo autore, aggiunge Mazzinghi, è stato quello di «esplorare il nostro mondo e di cercare se esista un senso della vita, accettando allo stesso tempo la realtà così come essa è»; nonostante il male e il dolore che inevitabilmente e necessariamente accompagnano l’esistenza terrena, quest’ultima è sempre degna di essere vissuta.

di Rosario Capomasi