I giorni delle feste natalizie raccontati dal cappellano dell’istituto penale per minori di Casal del Marmo

Con quella paura
di restare soli

 Con quella paura di restare soli  QUO-009
13 gennaio 2021

«Non lasciatevi rubare la speranza. Sempre avanti!». L’esortazione di Francesco del 28 marzo 2013 riecheggia ancora lungo i corridoi dell’Istituto Penale maschile e femminile per minorenni Casal del Marmo, a Roma. Era giovedì santo e qui il Papa celebrò la messa in Cena Domini e lavò i piedi a dodici ragazzi di nazionalità e di fedi diverse. Tra loro anche musulmani perché, allora, la maggior parte dei giovani ospiti erano stranieri, per lo più nordafricani e slavi.

Sei anni prima, il 18 marzo 2007, fu Benedetto xvi a visitare l’Istituto presiedendo la liturgia nella cappella del Padre Misericordioso. Nell’occasione il Pontefice parlò ai ragazzi del Figliol prodigo e del suo cammino di conversione: «Voleva una vita libera, diceva di voler essere solo e avere la vita tutta e totalmente per sé, con tutte le sue bellezze. Ma la vita senza Dio — spiegò Ratzinger —non funziona, perché manca la luce, manca il senso di cosa significa essere uomo». Di quella luce, soprattutto durante il periodo natalizio, ne ha parlato con i suoi ragazzi don Nicolò Ceccolini, cappellano a Casal del Marmo: «Molti di loro mi hanno chiesto: “Che senso ha festeggiare il Natale in queste condizioni? Perché celebrarlo dentro un carcere? Ha ancora da dire qualcosa quel Dio bambino in cui i cristiani credono nato a Betlemme”? Gli ho risposto che il Natale, anche in questi luoghi così opprimenti, è la festa di una grande luce che entra nel buio delle nostre vite, nel buio dei guai e dei problemi. Oggi non vediamo la vittoria piena di questa luce, ma possiamo essere coloro che seminano piccoli lampi nella vita di tanti. È il Natale in fondo a seminare questa bellezza in mezzo a questa bruttezza». Don Ceccolini racconta le feste accanto ai suoi ragazzi, descrivendo il clima di collaborazione che si è creato con gli agenti e con tutti coloro che, a vario titolo, lavorano nella struttura. «Qualche settimana fa abbiamo allestito un bellissimo presepe nella chiesa del carcere. La cosa più bella è stata la collaborazione nata tra i ragazzi e gli agenti di polizia penitenziaria» prosegue il cappellano. «A cosa serve il presepe, che di per sé è un segno così piccolo, se non a seminare un momento bello nel cuore di questi ragazzi, ad insegnare loro a custodirlo, a tenerlo lì affinché possa in futuro tornare fuori come punto luminoso della propria vita e restituirlo ad altri? In fondo — rileva il sacerdote — penso sempre che duemila anni fa non stavano meglio di noi, i problemi c’erano ieri, come ci sono oggi, eppure quel Dio in cui i cristiani credono non ha avuto problemi a entrare nella mangiatoia povera di un paese sperduto. Non ha provato vergogna a bussare ai nostri cuori per seminare qualcosa di bello, unico e irripetibile. Dio ama in modo speciale ognuno e questa è la luce che permette di vincere la notte più oscura della paura». I giovani di don Ceccolini sono portatori di disagi personali enormi. Disagi che si ingigantiscono ulteriormente quando subentra la coscienza di essere ghettizzati, reclusi tutti insieme, come scarto della società. «Qualche tempo fa ho chiesto ad uno di loro che cosa fosse per lui la paura, sentimento oggi così dominante davanti all’emergenza sanitaria che stiamo vivendo. Mi ha risposto che ragazzi come lui non hanno tanta paura della morte, in quanto sono sempre tentati a sfidarla all’uscita delle discoteche, sfrecciando sulle strade, quanto piuttosto della vita. Hanno timore di rimanere soli davanti all’esistenza». Negli anni trascorsi a Casal del Marmo, il giovane cappellano ha scoperto che «quella paura di rimanere soli si trasformava in rabbia, in vendetta e l’odio diventava la scintilla che faceva compiere a questi ragazzi atti sbagliati, a volte anche efferati». Parlando della doppia detenzione, la prima dovuta alla pena da scontare, l’altra al covid, rivela: «Oggi anche noi viviamo il tempo della paura e siamo bloccati, incarcerati. La pandemia che ci sta accompagnando e che ha così fortemente segnato il 2020 ci ha costretto a rinunciare all’abbraccio dei nostri cari, a muoverci, facendoci sentire un po’ tutti reclusi. È un’esperienza a cui non eravamo abituati, né tantomeno pronti, ma forse questo ci permetterà di condividere e di comprendere almeno un po’ quella sofferenza dovuta all’isolamento, alla solitudine e a volte anche all'abbandono che tanti dei nostri ragazzi vivono dentro le carceri».

Il cappellano spesso affianca l’educatore che, in carcere, non è unicamente una figura professionale. Men che meno lo è in un istituto penale minorile perché il rapporto che si stabilisce è molto intenso, un legame forte, fatto di emozioni, di affetti. «Quando arrivano le feste, prevale la tristezza e il rammarico di non poter trascorrere quei giorni insieme a loro» spiega Elisabetta Ferrari, coordinatrice dell’area pedagogica. «Spesso si creano delle relazioni che durano anni, sia per la lunghezza della pena, sia perché entrano ed escono più volte. A Natale ci si rende ancora più conto della loro sofferenza causata dalla lontananza dai cari. Non hanno la possibilità di parlare con le famiglie, se non tramite il telefono. E stiamo parlando di giovanissimi, per cui la privazione è ancora più sentita. Gli unici riferimenti siamo noi che diventiamo la loro famiglia». L’educatrice descrive, poi, i momenti della festa: «Cerchiamo di organizzare un pranzo o una cena. Prestando servizio al fianco delle ragazze, regalo un fondotinta, un ombretto, una t-shirt. Doni dal valore irrisorio, ma che assumono un significato importante nel momento in cui si ricevono. Gli occhi cominciano a brillare e si riapre, anche se per pochi attimi, il mondo alla normalità. La gratitudine per quell’oggetto di una manciata di euro diventa il collante che ci unisce».

E la “loro” festa? «Per me il Natale vuol dire famiglia» spiega uno dei ragazzi. «Ma io non ricordo più cosa è il Natale e quale è il suo significato perché ormai sono quattro anni che lo trascorro da solo. Prima in carcere, poi in casa senza nessuno e quest’anno di nuovo dietro le sbarre. Quindi per me è un giorno come tutti gli altri. A causa del covid, fuori di qui — prosegue — sono tutti nelle stesse nostre condizioni e questo mi fa sperare che si riesca a capire meglio quanto sia difficile per noi vivere questo tempo da detenuti. Ma spero soprattutto che nessuno si trovi mai in situazioni simili, perché il carcere è proprio un posto brutto. Mi auguro che questa esperienza finisca al più presto perché voglio tornare ad essere felice come una volta e a stare di nuovo vicino ai miei cari. L’auspicio è quello di recuperare tutto il tempo che ho perso». Gli fa eco un suo compagno: «Senza la famiglia e senza i nostri figli, qui è dura. Spero che questo virus finisca presto, così potremo tornare a stare insieme, senza preoccupazione per chi è fuori. Quando penso al Natale, mi viene in mente la nascita di quel Bambino che ci ha lasciato una speranza, quella che Dio è sempre con noi e non ci abbandonerà mai perché ci ama anche se siamo peccatori. In un mondo pieno di violenza e di cattiveria, esiste la strada della speranza che ci offre l’opportunità di scegliere che vita fare. Il Natale ci insegna che è possibile amarci ed aiutarci a vicenda perché siamo tutti imperfetti e abbiamo tutti bisogno degli altri. Ogni persona ha cose buone da donarci ed esperienze cattive da cui possiamo imparare».

di Davide Dionisi