Quattro pagine - Approfondimenti di cultura, società, scienze e arte

Il talento di mescolare parole e colori memoria e forma

Sandro Trotti «Roma»
12 gennaio 2021

A colloquio con il pittore Sandro Trotti


Uno sguardo gentile e vivacissimo precede la voce, ferma e rapida come quella di un ragazzo. Racconta per il piacere di raccontare e mescola ricordi, aneddoti, descrizioni, saggezze di vita con straordinaria memoria. Torna spesso al passato ma all’apparenza senza alcuna commozione, come se di ciò che è stato si fosse portato dietro solo il bello, l’allegro, l’istruttivo. Sorridente, ironico, talvolta dissacrante, alterna un italiano privo di cadenze a uno stretto dialetto marchigiano. Del resto, Trotti è tante cose insieme. Del pittore ha il talento di mescolare le parole come i colori sulle tele; del maestro l’abitudine alla chiarezza, l’intuito nel rendersi conto se chi ascolta comprende e la rapidità nell’adattare il tono del discorso. Ci incontriamo nella sua casa di Porto San Giorgio. Un giardino ombreggiato, un tavolo e intorno tante sedie per gli amici sempre benvenuti, un cavalletto con un dipinto che raffigura il mare, che è proprio lì a pochi passi dal cancello di ferro. Chi lo va a trovare ne sente il rumore e il profumo, Trotti riesce a vederlo con gli occhi della mente e del cuore e a restituirlo sulla tela con quei colori che ne catturano tutta la magia.

Il primo ricordo della tua vita?

La gioia di disegnare, di mescolare colori sul bianco di un foglio, di tirar fuori immagini da una matita nera. Ai miei genitori e soprattutto a mio padre dovevo sembrare un figlio incomprensibile. Lui era capomastro, tirava su case, qualcosa di solido, di concreto, che serve alla vita. Pittore non era un mestiere, ma una stravaganza da cui non si ricavava il pane. Ti racconto questo episodio. Ero ormai diplomato quando mio padre mi chiese di fargli un quadro. In un primo momento quella richiesta mi fece felice, come se finalmente fossi riuscito a convincerlo del mio talento. Poi mio padre aggiunse «grande» e quella richiesta mi insospettì. «Perché?» gli chiesi. «Per coprire i buchi del contatore della luce» mi rispose. Conoscevo quello che pensava, ma a sentirlo dire così provai una fitta di dispiacere che si sciolse subito dopo in un sorriso.

Ti condizionò questo atteggiamento?

No. Mio padre certo non mi incoraggiò, ma neanche mi ostacolò nell’intraprendere gli studi che desideravo. Nel 1949 arrivai a Roma e mi iscrissi al Liceo artistico. Non ti racconto i sacrifici, abitavo lontanissimo e mi svegliavo ogni mattina alle 5 come se dovessi andare a lavorare la terra, non in una scuola per imparare a disegnare. I sacrifici comunque non mi pesavano, tanta era la mia determinazione. E poi ebbi la fortuna di innamorarmi subito di Roma e di entrare in contatto con artisti che non solo mi accolsero e mi aiutarono, ma che col tempo sarebbero diventati amici fraterni. Per mantenermi agli studi facevo per qualcuno di loro piccoli lavoretti. Parlo di Domenico Purificato, che allora era assistente di Capogrossi, di Corrado Cagli e di miei due conterranei, Pericle Fazzini e Sante Monachesi. Discorso a parte per quel geniale artista che è stato Luigi Montanarini, che mi fece posare per il Cristo lavoratore destinato alla grande mostra di Assisi. Più tardi fu lui a presentarmi in occasione della mia prima personale nel 1954 e nella prima mostra romana finché nel 1956 mi scelse come suo assistente in Accademia. A quel tempo mi attraevano lo studio del colore — che era allora concitato e aggressivo — e la ricerca sui supporti, vetro e cellophane ad esempio, mezzi fragilissimi che esaltavano il segno.

Classicità e sperimentazione, come ti poni tra questi due estremi?

A Roma, che come ti ho detto divenne subito la mia città, tra gli anni Cinquanta e Settanta si respirava un’aria di grande fermento: era una città cosmopolita, ricca di avanguardie artistiche. Mi lasciai sedurre dalle sperimentazioni, deciso a interpretare con la mia pittura la cultura del momento. Poi un giorno Sante Monachesi mi disse: «Ti stai intristendo, stai diventando un artigiano di te stesso a forza di guardarti dentro. Alza lo sguardo e osserva la natura». Fu un buon consiglio. Nella mia vita di pittore ho fatto tanta sperimentazione, ma oggi credo di non aver osato abbastanza. Per andare oltre la forma sono necessari un’incoscienza certa e una coscienza incerta. La prima pensa che due più due fa cinque, la seconda sa bene che il risultato non è cinque, anche se questa idea la infastidisce. Avrei dovuto avere in pittura il coraggio o meglio la sfrontatezza di dire che due più due fa cinque. Un coraggio che non ho avuto.

E la classicità?

La classicità per me è spiritualità e nasce con Giotto. Luce senza ombre come in Beato Angelico, purezza del colore come in Kandisky, paesaggio contemplativo degli Impressionisti e dei Macchiaioli sono alcuni esempi di spiritualismo in arte. Fino ad arrivare a Giorgio Morandi la cui pittura-poesia nasce dalle minime cose quotidiane e si fa consunzione del colore.

Vederti disegnare sembra quasi una magia. La mano corre sicura, rapidissima e la matita non si allontana mai dalla carta, come se tu seguissi il filo continuo dei tuoi pensieri e i singoli tratti fossero già immagine.

Forse è così. Tutto resta dentro e poi si libera in un filo di matita nera o in un’esplosione di colori. Il testamento spirituale del maestro Montanarini diceva: «C’è una vita propria che conduce all’arte. Bisogna trovarla, ma non basta. Bisogna percorrerla. Soffrire senza domandare perché. Felici del privilegio di viverla». Sono sempre rimasto fedele a queste parole.

Hai dipinto molti soggetti come se la tua immaginazione fosse un cantiere sempre aperto. Amo molto il tuo informale: i cerchi, gli “assi cartesiani”, le strisce, i chicchi di riso, gli intrecci, così come amo il tuo astratto-figurativo con quei meravigliosi paesaggi urbani, Roma e le sue cupole, Venezia e la sua laguna e tanti angoli della tua amata terra marchigiana.

Il grande Pericle Fazzini un giorno mi disse che la mia pittura sapeva di barche, di mare, di cielo là dove comincia e finisce l’orizzonte. Credo sia vero. Cominciai adolescente a dipingere il mare di Porto San Giorgio e forse non ho mai smesso anche se ritraevo forme diverse. Ricordo che nelle mie marine compariva spesso una barca a strisce nere, gialle e rosse. Quei colori forti avevano acceso la mia fantasia. Un giorno mentre dipingevo sulla spiaggia si fermò un pescatore e mi disse «dipingi la mia barca, è più bella». La guardai, era di un grigio che sfumava nel celeste. Mi sembrò un cromatismo troppo debole e troppo simile ai colori del mare. Anni dopo in Cina senza pensarci dipinsi un Budda con gli stessi colori di quella barca della mia giovinezza. Anche quegli intrecci, che il critico Emilio Villa chiamò crates, sono forse vele, reti, conchiglie. Insomma, profumano di mare.

Alla fine degli anni Novanta vieni invitato a inaugurare l’Art Fair di Shangai e inizia così la tua avventura cinese. Oggi nel mondo artistico cinese ti definiscono il terzo italiano più famoso in Cina dopo Marco Polo e padre Matteo Ricci. L’Accademia di Belle Arti di Canton ha istituito un Centro di ricerca sull’arte contemporanea che porta il tuo nome.

È una parte molto importante della mia vita di uomo e di pittore. L’accoglienza fu straordinaria fin dall’inizio e il mio insegnamento presso varie Accademie cinesi è stato accompagnato da diverse mostre di cui la più importante fu la grande retrospettiva al Museo Nazionale di Pechino nel 2006. L’Oriente è un mondo che mi affascina perché è luogo di mistero, di incantamento, come se tutto fosse coperto da un velo d’ombra. Nello stesso tempo è un mondo dove è difficile insegnare pittura. La loro cultura pittorica è soprattutto racconto che si svolge attorno a un centro rappresentato dalla figura umana. Per noi occidentali è l’inverso: ogni angolo della tela è importante perché la pittura viene prima del racconto. Quel mondo in un certo senso ha confermato una mia convinzione. Un’opera d’arte ha bisogno di tempo e di disponibilità all’ascolto per essere decifrata; se si ha la pretesa di guardarla e comprenderla subito l’opera si chiude in sé stessa e non comunica. Il grande critico d’arte Lionello Venturi amava ripetere che doveva veder lavorare un pittore, osservare addirittura il verso delle sue pennellate per poterlo capire ed entrare in un angolo di lettura della sua opera.

Nel 1972 sei diventato titolare della cattedra di Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Roma e ancora oggi sei professore onorario presso le Accademie di Hubei, Guangzhou e Pechino. Che ruolo ha avuto per te l’insegnamento?

Ho sempre amato insegnare, almeno quanto ho amato imparare. Perché si impara da tutto. A questo proposito c’è un episodio che mi piace ricordare. Protagonista ancora una volta Montanarini che stava dipingendo una stazione della Via Crucis per la Chiesa di Arcumeggia nel varesotto con Cristo che cade e la croce che gli scivola addosso. Montanarini aveva dipinto un angioletto che tentava di trattenere la croce. Due frati osservarono il dipinto e poi con aria contrariata uno dei due disse: «Maestro dove sta scritto che un angelo interviene per aiutare Gesù?». Montanarini calmo rispose: «Nel Vangelo Gesù dice che a un suo cenno una schiera di angeli sarebbe intervenuta in suo aiuto. Si vede che questo è un angioletto disubbidiente». Questo aneddoto parla della strada che ciascun pittore deve trovare e percorrere. Mi piace l’insegnamento, ma non mi piace essere chiamato professore, forse perché è più facile essere un buon pittore che un buon maestro. Insegnare è un compito di grande responsabilità e non sempre si è all’altezza. C’è un detto in Cina molto bello che richiama l’importanza del vincolo che stringe maestro e allievo: «Chi ti insegna un giorno ti è padre per tutta la vita».

È cambiato nel tempo il tuo legame con la pittura?

Si è evoluto, modificato, ma nella sostanza è rimasto lo stesso. Dipingere mi ha regalato i momenti più belli della vita, quando hai un’età che non sai di avere.

di Francesca Romana de’ Angelis


Nato nel 1934 a Monte Urano (Ascoli Piceno), nel 1949 Sandro Trotti si trasferisce a Roma dove si iscrive al Liceo artistico e inizia a frequentare i più importanti artisti del tempo, tra i quali Domenico Purificato, Giuseppe Capogrossi, Pericle Fazzini, Sante Monachesi, Corrado Cagli e Lugi Montanarini. Al 1954 risale la sua prima personale a Porto San Giorgio e da allora ha esposto nelle principali gallerie e nei musei di numerose città in Italia e all’estero (tra le altre Philadelphia, Creta, Atene e San Pietroburgo). Nel 1972 diviene titolare della cattedra di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Roma e 1999 viene chiamato in Cina a inaugurare l’Art Fair di Shanghai e successivamente a insegnare nelle Accademie di Pechino, Guangzhou, Wuhan, diventando così uno dei maggiori rappresentanti in Cina della cultura artistica italiana. Nel 2006 gli è stata dedicata una grande retrospettiva al Museo Nazionale di Pechino e nel 2018 tre grandi mostre rispettivamente a Pechino, Guangzhou e Zhuhai. Oggi è professore onorario nelle Accademie di Pechino, Guangzhou e Hubei.