«Il teatro ai tempi della peste» di Oliva

A lezione di rinascita

Una scena dello spettacolo teatrale «Don Giovanni. Festino ai tempi della peste» diretto da Alberto Oliva
12 gennaio 2021

La storia è piena di persone che hanno vissuto situazioni simili a quelle che stiamo vivendo adesso; Alberto Oliva disinnesca alla radice il grido di dolore e le lamentazioni (legittime, per carità; ma non devono restare l’ultima parola) che si alzano dai teatri di tutta Italia sbarrati dalla pandemia. Invece di fissare il nostro ombelico e impantanarci nello smarrimento, guardiamo, piuttosto, suggerisce Oliva — regista, scrittore e giornalista giovane per l’anagrafe ma già onusto di premi e riconoscimenti — a quello che hanno fatto i nostri trisavoli teatranti in tempore pestis, per imitarne la tenacia, la creatività, e l’arte di arrangiarsi, abilità da non sottovalutare mai, nemmeno in tempi di vacche grasse e benessere diffuso, perché segno di appassionato amore alla vita, oltre che all’arte della scena. Aggiungiamo pure un pizzico di incoscienza, perché a volte pensare troppo, come insegna Amleto, non aiuta, e «il colore naturale della risolutezza viene reso malsano dalla pallida cera del pensiero; imprese di grande altezza per questa ragione deviano dal loro corso e perdono il nome di azione» (siamo nel cuore della prima scena del terzo atto, il celeberrimo monologo del To Be or Not To Be, “Essere o non essere”).

Per rendere ancora più efficace e duratura quest’opera di disinnesco, e contribuire, concretamente, a bonificare i campi del nostro futuro dalle mine vaganti degli o tempora, o mores! fine a se stessi, Alberto Oliva ha scritto un libro, Il teatro al tempo della peste. Modelli di rinascita (Milano, Jaca Book, 2020, pagine 224, euro 18), mettendo a frutto la pausa forzata del primo lockdown, esplorando il passato remoto e il futuro anteriore. Un esempio tra i tanti possibili: l’Inghilterra fra Cinquecento e Seicento fu devastata da due ondate di epidemie; ma è stato anche il secolo dell’affermazione internazionale del teatro elisabettiano; «è quindi di enorme interesse — chiosa l’autore del libro — ricostruire questo periodo così turbolento, per cercare di capire come sia potuto coincidere con una fioritura così incredibile di bellezza, proprio nel settore dello spettacolo dal vivo, che soffre sempre più degli altri durante le epidemie».

Shakespeare era nato da pochi mesi — nota Oliva — quando la sua piccola città natale, Statford-unpon-Avon, fu decimata da una terribile pestilenza, nell’estate del 1564. Quando i teatri vennero chiusi, durante un’ondata successiva, Shakespeare, ebbe l’intuizione di reinventarsi, scrivendo i poemetti Venus and Adonis e The Rape of Lucrece, entrambi dedicati al conte di Southampton, che probabilmente gli aveva già offerto la sua protezione. Andrew Dikson, autore di The Globe Guide to Shakespeare, sulle colonne del «Guardian», è convinto che due fra i massimi capolavori della maturità del Bardo, Macbeth e King Lear sono stati concepiti proprio durante la peste, in una quarantena simile alla reclusione forzata che abbiamo vissuto a causa del coronavirus la scorsa primavera. Anche la scienza, in tempore pestis, ha spesso raggiunto dei risultati sorprendenti. Nell’Inghilterra decimata dalle malattie, mentre i ciarlatani affollavano le piazze (celebre il caso del predicatore Salomon Eagle che si aggirava seminudo per le città con un pentolino di carbone acceso sulla testa, con cui era sicuro di tenere lontano il morbo) il giovane Isaac Newton, nel 1666, durante i mesi più virulenti dell’epidemia, si ritirò nella sua tenuta di Woolsthorpe in una quarantena volontaria che rivoluzionò per sempre il mondo della scienza, poiché fu allora che compì gli esperimenti che portarono alla formulazione delle rivoluzionarie teorie sulla luce e sul movimento. A questo periodo risale la leggenda della mela caduta dall’albero, che diede allo scienziato lo spunto per studiare più a fondo, e da una prospettiva diversa, le leggi del movimento gravitazionale.

«Tutte le epidemie hanno sconvolto il mondo che hanno trovato — continua Oliva, intervistato da Teatri.online — la mancanza di memoria di quello che è accaduto in passato — quando le epidemie erano assolutamente all’ordine del giorno e capitavano a tutte le generazione che vivevano — ci ha completamente disorientati. Penso davvero che la storia possa essere un modo per riconoscere che non siamo i più sfortunati del mondo, anzi. Possiamo invece fare di necessità virtù. Approfittiamo di questa crisi e di questa mancanza di obiettivi per ritrovarci e ritrovare un senso, magari facendoci aiutare da quello che è successo nel passato. Vi dico per esempio che William Shakespeare è passato attraverso tre epidemie di peste bubbonica nella sua vita. Tre, non una. Quindi si può. Oppure Cechov: ci sono delle lettere bellissime di Cechov che cito nel libro. Era medico in un piccolo villaggio sperduto della Russia, che durante l’epidemia di colera si lamentava del fatto che non gli mandavano le mascherine. Quindi gli stessi problemi che viviamo noi oggi e che abbiamo vissuto a marzo li ha vissuti Cechov e li ha raccontati. Dunque non siamo così soli. Questo è un po’ il messaggio che vorrei dare».

In tempi non sospetti (nel 2015 tre anni prima dell’arrivo della sindrome da covid-19) Oliva si era già occupato di questi temi mettendo in scena Don Giovanni. Festino ai tempi della peste di Alexandr Sergeevič Puškin, utilizzando l’epidemia come il reagente chimico che evidenzia il cupio dissolvi di un Occidente sazio e disperato. Dalla grande letteratura russa arriva il monito a vedere la circostanza come un’occasione, a prescindere dalla sua “stranezza” o difficoltà: «Ma se uno, Dostoevskij — scrive Oliva — a cui stavano per sparare in testa perché voleva la libertà, poi gli è venuta l’epilessia, era sempre indebitato e tanto altro, ha avuto voglia di scrivere che “la bellezza salverà il mondo”, noi possiamo permetterci di essere tristi?».

di Silvia Guidi