«La morte di Gesù» chiude la trilogia di John Maxwell Coetzee

Il bambino che ha imparato
a leggere con Don Chisciotte

Particolare dalla copertina del libro edito da Einaudi
11 gennaio 2021

È l’ultimo episodio della trilogia che lo scrittore sudafricano John Max-well Coetzee, premio Nobel per la letteratura nel 2003, dedica, ma — come vedremo — solo nel titolo, a Gesù. Perché, in realtà, a parte L’infanzia di Gesù (2013), I giorni di scuola di Gesù, uscito tre anni dopo, e il racconto di cui stiamo parlando, La morte di Gesù (Torino, Einaudi, 2020, pagine 171, euro 18, traduzione di Maria Baiocchi), il nome di Gesù scompare all’interno della narrazione.

Il giovane protagonista delle tre storie si chiama David, ed è senza famiglia, perché Simón lo trova nella nave che sta portando uomini, donne e bambini verso una nuova vita. E non è un modo di dire: mano a mano che la gente nuova si allontana dal proprio passato, dimentica ciò che è stata nel “prima”. Simón si prende cura del bambino, che trova anche una madre nuova, al primo sguardo, ed è strano, perché la donna non ha problemi economici, pratica sport e frequenta la buona società: eppure tutti e due, bambino appena sbarcato, lacero e malvestito, e signorina borghese senza problemi economici, sentono che qualcosa li lega.

Anche se ciò non vuol dire miracoloso cambiamento: se è vero che Inés si dedica completamente a lui, accettando di andare a vivere con l’immigrato Simón, si dimostra scostante e dura con tutti gli altri, soprattutto con il padre adottivo di David, che, a sua volta, evidenzia problemi a scuola: sembra anzi avere un deficit cognitivo. Da parte sua il buon Simón rimane un uomo mite, buono, paziente, forse troppo, come gli rimprovera la nuova “compagna”. Un semplice, insomma, come si dice oggi. Come se fosse una patologia.

Quel deficit cognitivo però non impedisce a David di sconvolgere con la sua particolare intuitività i dirigenti di una scuola di danza dove si pratica una sorta di educazione pitagorica: il ragazzo non vuole apprendere la matematica semplicemente perché i numeri sono nelle cose attraverso il movimento reciproco, l’attrazione, la danza, in cui eccelle subito. L’essenza del numero è, non si calcola, sembra mostrare David senza grandi discorsi, e quando li fa, i discorsi, stupisce i sapienti con il suo rovesciamento della logica d’occidente.

Nel terzo romanzo, David fa quello che fanno tutti i ragazzi di dieci anni, gioca a pallone, entra in una squadra di una strana sorta di orfanatrofio il cui patròn insegna che tutti siamo soli al mondo e che la sua istituzione che ospita bambini soli non è altro che un microcosmo in cui si rispecchia la società della solitudine e del vinca il più forte. Fino a quando il bambino non inizia a mostrare i sintomi di uno strano male che sembra epilessia ma che interessa anche i legamenti. Al di là della trama, la cui conclusione ovviamente risparmiamo al lettore che si appresti ad affrontare il romanzo, anche qui tornano le dimensioni su cui si stagliavano le due storie precedenti: il pitagorismo, l’orfismo, la maieutica di Socrate, il viaggio come rinascita, che però lascia inquietanti bagliori di una vita precedente — o futura? —, Cervantes e il suo solitario cavaliere della Mancia, la genialità che alcuni ritenuti portatori di autismo e di deficit cognitivi evidenziano in alcuni momenti, a scuola come in una comune conversazione. E, ma non ultimo, come vedremo, il cristianesimo.

Lo dicevamo in apertura: Gesù non appare mai in una storia ambientata ai tempi dei nuovi popoli del mare, anche se ha molti punti in comune con il giovane protagonista. David, soprattutto quando è in ospedale, viene fatto oggetto di una attenzione che sconfina da parte dei ragazzini ricoverati e dei piccoli amici che lo vanno a trovare, per ascoltare il suo particolare, affascinante, creativo racconto delle avventure di Don Chisciotte.

David ha imparato a leggere e a scrivere unicamente su questo libro, racconto delle gesta di un povero disgraziato, tanto innamorato delle favole e degli eroi da scambiare la realtà con quelle fantasie, con il risultato di essere dileggiato, rifiutato, picchiato. Il messaggio del bambino “prodigio” è forse questo? Che colui che mostra sentimenti e si prodiga oltre la norma per gli altri è destinato a soccombere ora, ma ad essere ricordato finché il sole illuminerà le umane sorti?

Nessuno in questo racconto osa pronunciare una parola definitiva, né proporre una interpretazione, il richiamo a Gesù del titolo si fonde con una serie di altri rimandi che trattengono il racconto da qualsiasi tentazione esegetica. Certo, i riferimenti ai Vangeli e alla Bibbia sono molteplici, anche se abilmente mascherati (un po’ come faceva Umberto Eco nel Nome della rosa), come anche la visione del diverso come via d’uscita da una società sempre più violenta e inquinata, come avevano suggerito Dostoevskij o Faulkner (in L’urlo e il furore una vecchia domestica di colore e un demente sono i veri narratori della descensio ad inferos di una antica famiglia del sud), Pirandello, Helderlin e Dino Campana.

Ma anche la morte di David comporta per Coetzee il vaglio delle reazioni degli altri personaggi, e a dubbi: cosa accadrebbe se il padre putativo di Davide seguisse il consiglio dei “seguaci” del bambino e portasse via le ceneri dal povero loculo assegnato?

Nulla di nuovo sotto il sole: anzi, si riaprirebbero discussioni infinite che Coetzee sa benissimo di riattizzare, con quel “suggerimento” evangelico implicato nel titolo. E su quella — ancora una volta — possibilità che il dopo la morte di David-Gesù sia una inventio dei seguaci. Ed è questa la parte più debole del racconto, in cui l’assassino Dmitri, diventato seguace di David, “razionalizza” in una lettera a Simón il senso e l’inizio del nuovo culto, diventando il nuovo sapiente dopo la trasgressione, richiamo forse a Paolo di Tarso.

La morte di Gesù perde per strada l’assertività dei dialoghi, la loro semplicità e freschezza dei romanzi precedenti, e anche la capacità di stupire il lettore con la narrativizzazione, da parte occidentale, delle possibilità rifondative delle nuove genti. E con una implicita, probabilmente voluta, contraddizione: il tentativo, nella sequela di Renan e Carrère, di razionalizzare il mistero cristiano, ma, nello stesso tempo, l’affermarsi di una lettura heisenberghiana dei fatti narrati: come nel principio di indeterminazione, la realtà qui è quella che ognuno vede o crede di vedere nell’altro. La tentazione della razionalizzazione di tutto è scossa non solo dall’elemento religioso, ma anche dal nuovo pensiero d’occidente che distrugge la sua antica ragione.

di Marco Testi