DANTE E I PAPI
La feconda eredità di un umanesimo cristocentrico

Il punto d’approdo

Venturino Venturi, «Poeta che mi guidi». Accanto, «Dove si varca», dello stesso autore (1984, particolare)
09 gennaio 2021

Paolo VI e l’«Altissimi Cantus»


È veramente un dono della Provvidenza poter cominciare il 2021, settimo centenario della morte di Dante, con la memoria di Paolo vi , autore dell’ultimo, storico, documento papale, riferito a un centenario dantesco. Di questo ringrazio la direzione e la redazione dell’«Osservatore Romano» che mi ha permesso di approfondire codesta riflessione. La storia del dantismo papale permette di considerare 700 anni di storia del papato, da Bonifacio viii a Francesco, che può essere allegorizzata nella Croce: il senso verticale è costituito dagli eventi diacronici del sistema Dante, in cui ciascun dantismo influenza quello successivo, mentre il senso orizzontale riguarda gli eventi sincronici del sistema Dante, in cui il dantismo è condizionato dal contesto storico dell’epoca in cui il singolo Papa vive e opera. Intendo per sistema Dante l’idea profetica di Chiesa espressa dall’Alighieri, secondo la quale il sacerdotium deve annunciare le verità della Fede, regolare la vita secondo i precetti cristiani, guidare alla santità, preservare la libertà dello spirito, laddove l’imperium deve regolamentare le cose terrene.

Codesta totalizzante prospettiva ci introduce al dantismo di Paolo vi , punto d’approdo di un culto secolare e, nello stesso tempo, chiave di volta dell’evento più importante del cattolicesimo del ventesimo secolo: il Concilio Vaticano ii . Alla luce della Lumen gentium non sembri eccessiva tale affermazione se si considera che la Lettera Apostolica motu proprio, Altissimi Cantus septimo exeunte saeculo a Dantis Alighieri ortu, fu resa pubblica il 7 dicembre 1965, vigilia della chiusura ufficiale del Concilio, quasi a far coincidere l’afflato di rinnovamento che viveva la Chiesa di Roma con l’afflato profetico e poetico della Commedia. Le recenti biografie di Montini ci permettono di affermare che il culto di Dante comincia fin dagli anni del liceo, come dimostra il carteggio giovanile del futuro pontefice, mentre una mole considerevole di documenti (Insegnamenti di Paolo vi , Roma 1963-1978) dà conto della costante presenza della fonte dantesca, durante tutto il pontificato, una fonte a cui Paolo vi attinge per mettere a punto il nucleo tematico fondamentale del suo magistero: l’umanesimo. Si tratta di una categoria antropologica, morale, filosofica, teologica e, conseguentemente, estetica, così programmata dall’arcivescovo Montini nell’omelia del 7 dicembre 1959: «Sant’Ambrogio ci può essere maestro di ben sentire. È umanesimo questo. Sì, è un’eredità che a lui veniva dai classici e che il cristianesimo, facendo l’inventario dei valori umani della civiltà greco-romana, ha saputo selezionare e far propria. Virgilio, ad esempio, ancor prima d’esserlo di Dante fu maestro d’Ambrogio” (G.B.Montini, Discorsi e scritti milanesi 1954-1963, 1997) e nel giorno di sant’Ambrogio è pubblicato l’Altissimi cantus. Il documento si pone in continuità con l’enciclica di Benedetto xv In praeclara summorum, ma presenta una prospettiva teologica perfettamente inserita nei “ tempi nuovi” del Concilio. Così il cardinale Bassetti in occasione della canonizzazione, voluta da Papa Francesco, di Paolo vi : «Se volessi utilizzare poche parole per sintetizzare la grande eredità di papa Montini le troverei senza dubbio nell’espressione “nuovo umanesimo” (…), un umanesimo cristocentrico (…) il risveglio della Chiesa nelle anime evocato da Guardini, ed è in definitiva un cristianesimo che si cala nella modernità senza integralismi o cedimenti mondani» («Avvenire»,14 ottobre 2018), parole che riecheggiano l’Allocuzione di Papa Montini nell’explicit del Concilio: «Ricordiamoci (…) che nel viso di ogni uomo (…) noi possiamo riconoscere il viso del Cristo, il Figlio dell’uomo, e che, nel viso del Cristo noi possiamo riconoscere la faccia del Padre celeste (…) se ci ricordiamo questo, il nostro umanesimo diventerà cristianesimo e il nostro cristianesimo sarà teocentrico (…) per conoscere Dio, bisogna conoscere l’uomo», parole che rimandano alla visione di Dante: «Ne la profonda e chiara sussistenza/de l’alto lume parvemi tre giri/di tre colori e d’una contenenza;/ e l’un da l’altro come iri da iri/parea reflesso, e ‘l terzo parea foco/che quinci e quindi igualmente si spiri.(…)Quella circulazion che sì concetta/(…) dentro da sé, del suo colore stesso,/mi parve pinta de la nostra effige / per che ‘l mio viso in lei tutto era messo»(Paradiso, xxxiii , 115-132).

Paolo vi accede così direttamente all’umanesimo cristiano di Dante poiché ne percepisce la quintessenza: l’incontro tra la tradizione greco-latina con la tradizione ebraico-cristiana per valorizzare l’umano nel divino e il divino nell’umano «In Dante tutti i valori umani (intellettuali, morali, affettivi, culturali, civili) sono riconosciuti, esaltati; e ciò che è ben importante rilevare, è che questo apprezzamento e onore avviene mentre egli si sprofonda nel divino, quando la contemplazione avrebbe potuto vanificare gli elementi terrestri. Anzi la sua umanità si definisce ancor più piena e si perfeziona nel vortice del divino amore» (Altissimi Cantus, par. 29). Dopo aver rilevato l’appartenenza di Dante alla Chiesa cattolica per la catarsi e l’afflato religioso presente nella Commedia e dopo aver considerato il fine dell’opera dantesca, caratterizzata dallo stesso ecumenismo e dallo stesso anelito alla pace universale proclamati dal Concilio, Paolo vi autorevolmente si richiama all’operato dei suoi predecessori (Leone xiii aveva fondato la cattedra di teologia dantesca nel 1887) affermando: «Ma non è da ritenerlo poeta, nonostante sia teologo, ma piuttosto da proclamare signore dell’altissimo canto, anche in quanto teologo dalla mente sublime» (par. 38). La teologia dantesca, insegnata alla Lateranense da monsignor Giovanni Fallani negli anni 1962-1968 e poi da monsignor Elio Venier dal 1968 al 1970, costituisce la tela sulla quale Paolo vi dipinge il suo Dante. Nasce così la cattedra di Studi danteschi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ai padri conciliari è donata una copia della Divina Commedia, Ravenna accoglie una croce d’oro per il sepolcro del poeta (19 settembre 1965), mentre Firenze riceve, destinata al Battistero di San Giovanni, una corona d’alloro dorata con incastonato il monogramma di Cristo (14 novembre 1965). Ma accanto alle disposizioni per celebrare il centenario, tutto il pontificato, anno per anno, celebrazione per celebrazione, tra cui quella dell’Anno Santo 1975, è intessuto, come un mirabile arazzo, di citazioni dantesche, alcune particolarmente ricorrenti, come quella riferita a Roma, allegoria della Gerusalemme celeste, evocata da Dante nel celebre verso Quella Roma onde Cristo è romano (Purgatorio, xxxii , 102), oppure la definizione di Maria, nella preghiera di San Bernardo: «Termine fisso d’etterno consiglio» (Paradiso, xxxiii , 3), mentre tutto il canto xxxiii del Paradiso è inserito, per volontà del Papa, tra gli Inni della Liturgia delle Ore, accanto all’innodia canonica cristiana e a quelle di derivazione biblica, evangelica e patristica. Così come avvenne per Dante, la fonte citata non è un ornamento retorico ma si propone e raggiunge il fine di inserire l’umanesimo cristiano di Dante, vivo e vero, nel dibattito culturale della seconda metà del Novecento, soprattutto riguardo al confronto con la cultura laica. Secondo la testimonianza del cardinale Paul Poupard «Paolo vi rimetteva con fervore ai suoi amici francesi Jacques Maritain e Jean Guitton e al polacco professore Stefan Swiezawski, uditori al Concilio, il suo messaggio agli uomini di pensiero e di scienza: “Un saluto specialissimo a voi ricercatori della Verità, a voi uomini di pensiero e di scienza, esploratori dell’uomo, dell’universo e della storia”» (cfr. Vocazioni, marzo/aprile 2014). Maritain, autore di Umanesimo integrale, partecipa al Concilio così come il filosofo Guitton i cui Dialogues avec Paul vi (1967) contengono un capitolo dedicato a Dante e alla Commedia. La dantistica di quegli anni produce frutti cospicui che Paolo vi non esclude dalle sue letture: Dante et la Philosophie di Etienne Gilson (1972), i Dantestudien, di Erich Auerbach (prima edizione italiana 1963) e soprattutto tutta la dantologia di Romano Guardini, in particolare Dante, visionnaire de l’eternité (1962). Codeste fonti non sono in contrasto tra loro, per l’idea stessa di cultura che caratterizza il pontificato di Papa Montini nel suo dialogo con la modernità. La cultura e la sapienza è «maturazione dell’uomo mediante la familiarità col passato, il radicamento nel presente e la disponibilità verso il futuro» (messaggio rivolto all’Unesco, 1 novembre 1971). Non credo sia casuale che anche la dantistica italiana abbia una cospicua fioritura negli anni Sessanta, quando la filologia di Giorgio Petrocchi dà alla luce la Commedia secondo l’antica Vulgata (Milano 1966-67), mentre la teologia dantesca è definita da Giovanni Fallani (cfr. Poesia e teologia nella divina Commedia, 1961, Dante poeta teologo, 1965, L’esperienza teologica di Dante, 1976) e mentre Umberto Bosco, guidando una schiera internazionale di insigni dantisti, dà vita all’Enciclopedia Dantesca (1970-78), il cui ultimo volume è pubblicato proprio nell’anno conclusivo del pontificato montiniano. La peculiarità più toccante del dantismo di san Paolo vi , sublime eredità per ogni lettore della Commedia, è consistita nell’aderire alle ragioni profonde della spiritualità di Dante, tormentata dalla Storia e dal Male, ma fermamente fiduciosa dell’approdo divino: «Anche in seno alla rutilante immensità dei cieli, si sente dominare dall’ansia, dal messaggio di verità e di bontà, che attende da lui il punto lontano della nostra terra infelice l’aiuola che ci fa tanto feroci» (Altissimi Cantus, par. 29).

di Gabriella M. Di Paola Dollorenzo