A fondamento
L’enciclica Fratelli tutti è un richiamo pressante a inoltrarci con coraggio nel mondo nuovo. E a cogliere i segni dei tempi, anche quando questo possa apparire quasi impossibile. Quei segni e quel mondo disvelati, da ultimo, dal covid.
Una prima domanda allora si pone: dove situare l’inizio del «mondo nuovo»? Lo spartiacque è il 2001? È l’11 settembre, sono le Torri gemelle? Ovvero la linea va tracciata nel 1989, 11 novembre, caduta del muro di Berlino?
Nel 1989 ebbe fine il mondo dei totalitarismi, di Auschwitz, della bomba atomica e della cortina di ferro. Il 2001 fu invece il contraccolpo a una globalizzazione affidata tutta agli automatismi economici, non guidata dalla politica, anzi segnata dalla sua crisi, e dal disastro e desertificazione delle comunità che provoca migrazioni insieme disperate e di speranza, dal definitivo emergere delle sfide inquietanti della tecnica, del post-umano e della devastazione ambientale.
Si può forse leggere il 1989 come possibilità e il 2001 come crisi. È questa, a mio avviso, la linea seguita dall’enciclica di Papa Francesco. E il senso del suo riferirsi a un «mondo chiuso» e a un «mondo aperto». Nel 1989 la caduta dei muri, l’idea di una politica fondata sull’interdipendenza, il “siamo tutti sulla stessa barca” di Gorbaciov; nel 2001 i nuovi muri e, sullo sfondo, lo “scontro di civiltà” se non di religioni. L’impressione è che l’enciclica di Papa Francesco si illumina allorché la si colloca presso il crinale del 1989. Muri che cadono e ponti che vanno costruiti, interdipendenza, mondo aperto, dialogo e non scontro tra religioni.
Francesco, è stato già ampiamente notato, richiama i tre valori della rivoluzione francese: libertà, uguaglianza, fraternità. E pone l’accento sul terzo termine, quello della fraternità. Il meno proclamato ma quello decisivo. Proprio dopo il 1989, collaborai con l’allora segretario del Pci Achille Occhetto a comporre il documento congressuale che sanciva la fine del Pci e la definizione di una politica che potesse affrontare per l’appunto le sfide del mondo nuovo. Si richiamava lì la necessità di superare la contrapposizione tra i due valori di libertà e uguaglianza che avevano diviso l’Europa, e soprattutto si diceva che era «centrale il richiamo al valore della solidarietà, che rinvia a quello di fraternità, valore non a caso negletto tra quelli proclamati dalla rivoluzione francese, e che oggi può invece costituire una mediazione tra il valore della libertà e quello dell’uguaglianza».
Erano i tempi in cui Giovanni Paolo
Perché quel richiamo ai tre valori della rivoluzione francese allora? Perché nel Novecento si era via via prodotto, nella relazione tra Occidente e Oriente, accanto al bipolarismo politico un bipolarismo antropologico e valoriale. Nell’Occidente si era infatti affermato il valore della libertà, fondato sul sistema economico liberale e sugli istituti della democrazia politica, trascurando bensì il valore dell’uguaglianza. Ma una libertà senza uguaglianza rende arduo e anche impossibile a molti vivere effettualmente la propria libertà e i propri diritti. A Oriente, all’opposto, si era affermato il valore dell’uguaglianza poggiato su un’economia pianificata e su un sistema politico totalitario e oppressivo che, negando la libertà, finiva per rendere una menzogna anche l’uguaglianza, imponendo a tutti una sottomissione al dominio indegna della persona umana.
Ebbene nella sua enciclica Francesco sembra prendere le mosse da quel tempo e da quei dilemmi, e rilancia con forza il valore della fraternità «che ha qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza». Fraternità «che non è solo il risultato di condizioni». Si può essere liberi e/o uguali. E queste sono condizioni. La fraternità non è mai semplicemente una condizione. Essa è semmai il presupposto e la scelta in favore di un’autentica libertà e di una vera uguaglianza. Oltre che la base di ogni stabile pace.
Tutto ciò introduce il secondo elemento forte della riflessione di Francesco. La fraternità, la solidarietà è l’unico possibile fondamento della “buona politica”. E senza politica — questo afferma con chiarezza persino tagliente Francesco — non si esce dalla crisi di un mondo che si è pericolosamente richiuso (e frammentato). «Può funzionare il mondo senza politica? Può trovare una via efficace verso la fraternità universale e la pace sociale senza una buona politica?». Una politica capace di dare guida, indirizzo, senso alla globalizzazione. «La politica — egli afferma — non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia». Questo è stato l’errore dell’epoca a cavallo del secolo. Occorre una politica universale quanto lo è la globalizzazione.
Ecco. Il messaggio è quello di andare oltre una globalizzazione puramente tecnoeconomica, che ha fatto sorgere la paura e dato anima a movimenti comprensibili di difesa di identità personali, sociali e di comunità minacciate e di culture travolte. L’idea è quella di una politica non al seguito della globalizzazione economica ma che si proponga invece di guidarla, una politica evidentemente sovranazionale ma che insieme valorizzi quella categoria preziosa, assai prossima a quella della fraternità e anch’essa negletta, della sussidiarietà e fondata sul rispetto delle comunità. Una politica in grado di dare senso umano (e cioè compiutamente personalista e comunitario) alla globalizzazione economica e alla stessa innovazione tecnologica.
Una politica che ambisca infine — questa è la grande svolta culturale, profetica, che si intravede — a superare la categoria tradizionale del politico, la categoria schmittiana dell’amico-nemico, per assumere con coraggio quella, inaudita, dell’amicizia senza più nemico. Perché oggi appare chiaro che siamo tutti una comunità con un medesimo destino.
Tale passaggio è anche una conversione. Non è questo davvero secondario. Quella che già i Greci chiamavano metànoia. Un nuovo punto di vista che nasce anche dall’evidenza, prodotta dal covid (forse perciò segno dei tempi), che nessuno si salva da solo. Come affermò Francesco in quella notte memorabile a piazza San Pietro. Qui si coglie l’urgenza che anima l’enciclica.
Una metànoia che può e anzi deve sorgere anche al di fuori dell’esperienza religiosa ma che ogni esperienza religiosa aiuta a compiere. Perciò Francesco su tale aspetto conclude la sua enciclica.
La coscienza religiosa aiuta a scoprire il Padre di tutti gli uomini che in Lui trovano fondamento sicuro alla loro fratellanza. Egli richiama la celeberrima frase di Nostra aetate dove si dice che la Chiesa cattolica sinceramente rispetta le altre religioni le cui dottrine «non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini». A noi cristiani bastano le poche folgoranti parole che Gesù, risorto, dice a Maria Maddalena, andata a cercarlo al sepolcro. Ancora giovedì sera Gesù aveva detto ai discepoli «non vi chiamo più servi... ma amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi». Ma già domenica di Pasqua dice all’amica e sorella: «Va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro». Ora li chiama esplicitamente fratelli. Gesù è risorto e ha reso, in Lui, i suoi discepoli e tutti noi, davvero figli di Dio e fratelli e sorelle tra noi.
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