Reportage
Il conflitto non conosce tregua. Per l’Onu è la crisi umanitaria più grave del mondo

Yemen allo stremo

Un agricoltore alla periferia di Sana’a Secondo l’Onu l’insicurezza alimentare è ai massimi livelli (Epa)
08 gennaio 2021

Ormai prossimo al suo sesto anno di durata, il feroce conflitto che devasta lo Yemen sembra ancora molto lontano da una possibile conclusione. Lo scontro fra i ribelli Houthi, che controllano la capitale Sana’a, e il governo internazionalmente riconosciuto di Abd Rabbih Mansur Hadi, con sede ad Aden, continua implacabile nonostante i tentativi di mediazione portati avanti da diversi attori nel corso degli anni. I risultati di questa tragedia sono ben visibili nelle condizioni del Paese del Golfo, patria di alcune delle più antiche civiltà del mondo.

Il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef) ha infatti stimato che l’80 per cento della popolazione yemenita necessita di ricevere aiuti umanitari, a causa della mancanza di servizi essenziali come acqua, elettricità e cure di base. Ormai da anni l’Onu ha definito la guerra civile in Yemen, teatro di numerose violazioni dei diritti umani, come la crisi umanitaria più grave al mondo.

Per comprendere a fondo la gravità e la persistenza di questo conflitto è necessario tornare indietro nel tempo fino alle sue origini. Le premesse della guerra in Yemen risalgono al 2004, con la prima insurrezione dei ribelli houthi contro l’allora presidente Ali Abdallah Saleh. Gli houthi sono un gruppo appartenente in prevalenza alla corrente zaydita dell’islam sciita proveniente dal nord del Paese, e prendono il nome dal leader Hussein Badreddin al-Houthi, il quale rimase ucciso in combattimento durante questa prima rivolta. In seguito alla sollevazione, gli scontri continuarono per anni, intervallati da brevi tregue.

Nel 2012, durante lo sconvolgimento causato in tutta la regione dalla Primavera araba, Saleh si dimise, lasciando l’incarico presidenziale al suo vice Hadi. Per placare l’agitazione, Hadi annunciò l’entrata in vigore di una nuova costituzione che prevedeva la divisione del Paese in sei province. Gli houthi però non accettarono il programma politico del presidente e attaccarono la capitale, costringendo Hadi a rifugiarsi ad Aden e successivamete a Riad, dove tuttora risiede. Il presidente in fuga ricevette l’appoggio di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, mentre i ribelli quello dell’Iran. Da allora il conflitto è continuato, causando centinaia di migliaia di vittime, in gran parte civili, e oltre 4 milioni di sfollati. Anche gruppi terroristici come il sedicente Stato islamico (Is) e Al Qaeda nella Penisola Arabica hanno partecipato alle ostilità, infliggendo ulteriori violenze alla popolazione yemenita. Inoltre, le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sono state sempre accolte con diffidenza dagli schieramenti coinvolti.

A complicare la situazione è anche il mancato riconoscimento internazionale degli houthi, per via del quale la mediazione fra le parti può essere esercitata solamente da organizzazioni umanitarie neutrali. Anche queste incontrano però numerosi ostacoli nello svolgimento delle loro missioni: secondo Human Rights Watch, gli houthi ostacolano la fornitura di aiuti umanitari, e ciò ha causato anche un declino nelle donazioni destinate allo Yemen. Dei 3,4 miliardi di dollari destinati dalle Nazioni Unite al Paese del Golfo per il 2020, infatti, solo il 24 per cento era stato effettivamente stanziato ad agosto.

Altra problematica cruciale è l’elevato numero di attori — statali e non — coinvolti nel conflitto: oltre al supporto esterno, Hadi conta su una precaria alleanza con il Consiglio di transizione del Sud (Stc), un’organizzazione politica separatista con la quale un primo accordo per la formazione del nuovo governo è stato raggiunto nel dicembre scorso. Ma solo pochi giorni dopo, il 30 dicembre, i membri del nuovo esecutivo sono scampati a un attentato all’aeroporto di Aden, dove il loro volo era appena atterrato.

Un’esplosione, seguita poi da una sparatoria, ha causato 22 morti e 60 feriti nella struttura, in quello che è stato definito dall’inviato speciale delle Nazioni Unite in Yemen Martin Griffiths come «un inaccettabile atto di violenza, che ci ricorda l’importanza di riportare lo Yemen sul percorso della pace». Il diplomatico britannico ha poi augurato al nuovo governo di trovare «la forza per affrontare i difficili compiti che ha davanti a sé».

di Giovanni Benedetti