L’annuncio messianico di Gesù Cristo

Tutti fratelli
nel Dio universale

 Tutti fratelli nel Dio universale  QUO-005
08 gennaio 2021

In questo tempo di cambiamento di pagina nei nostri calendari risulta interessante rileggere alcuni brani in cui Gesù compie una svolta radicale nel suo annuncio messianico. Uno di questi è la sua presentazione nella sinagoga di Nazaret narrata nel vangelo di san Luca. Prima di esaminarlo, vorrei però, a mo’ d’introduzione, ricordare un passaggio della recente enciclica Fratelli tutti. Nel prologo del capitolo secondo, dove viene narrata la parabola del buon samaritano, Papa Francesco ci dice, riferendosi a Cristo: «Nell’intento di cercare una luce in mezzo a ciò che stiamo vivendo, e prima di impostare alcune linee di azione, intendo dedicare un capitolo a una parabola narrata da Gesù duemila anni fa. Infatti, benché questa Lettera sia rivolta a tutte le persone di buona volontà, al di là delle loro convinzioni religiose, la parabola si esprime in modo tale che chiunque di noi può lasciarsene interpellare» (n. 56).

Il racconto lucano citato all’inizio ci narra che Gesù «si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore”. Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. Allora cominciò a dire: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi”» (Luca, 4, 16-21).

La prima reazione di rifiuto del messia-Gesù avviene tra gli astanti con cui aveva familiarità, che conoscevano la quotidianità della sua vita e della sua semplice famiglia: «Non è il figlio di Giuseppe?» (v. 22), si chiedono. Dal proprio punto di vista, tale familiarità conferiva loro privilegi di tipo possessivo ed esclusivista nei confronti del figlio di Maria. Di fronte a ciò, Gesù ricorre a due detti popolari come prime risposte. Nel primo, «medico, cura te stesso» (v. 23), fa riferimento a un detto secondo il quale si riteneva che chi ambiva a uscire dal proprio ambiente per avere successo nella sua professione, doveva prima dare prova delle proprie capacità nel suo luogo di origine. Le persone presenti nella sinagoga nazarena non potevano accettare che i loro pregiudizi religiosi e politici fossero minacciati proprio da qualcuno con il quale concepivano soltanto una relazione di vicinato. Anche ai nostri giorni, ci può accadere che, avendo coltivato una serie di abitudini cristiane, ci sentiamo detentori, per consuetudine religiosa, del diritto di condizionare o di determinare lo spazio e il tempo dell’agire di Cristo nel cosmo e nella storia.

Il secondo detto — «Nessun profeta è bene accetto in patria» (v. 24) — completa il primo, dicendo chiaramente che la sua rivelazione messianica dimostrava che i suoi erano insensibili ed estranei all’avvento che avevano dinanzi ai loro occhi. Questo proverbio apre anche la via a una nuova affermazione nell’omelia “paesana” di Gesù, che produce il secondo rifiuto. Stavolta però è di un tale forza che i presenti, se ci fossero riusciti, avrebbero anticipato la morte del messia buttandolo giù dal precipizio (v. 29).

Facendo uso di una omiletica profetica penetrante, Gesù continua il suo sermone affermando: «C’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro» (vv. 24-27). Citando due profeti importanti della fede giudaica, ricorda ai presenti due eventi di portata catastrofica con un chiaro significato messianico universale ed ecumenico. Quegli eventi fanno riferimento a una crisi climatica ed ecologica senza precedenti e a una carestia che aveva provocato un gran numero di morti in tutto il mondo conosciuto di allora. Rammenta anche ai presenti una pandemia causata da una malattia contagiosa per la quale non esistevano cure e che si era potuto solo “attenuare”, anche a quei tempi, con un crudele isolamento personale che comportava serie discriminazioni sociali. A questo punto del mio breve commento non ritengo necessario fare un confronto attuale e diretto con la situazione che stiamo vivendo in questo tempo di disastri ecologici, alimentari e sanitari. Evidentemente quel senso religioso fondamentalista e riduzionista che aveva costruito negli ascoltatori un Dio proprio, piccolo e manipolabile, è il punto focale che Gesù, come incarnazione del testo messianico citato, cerca di rivelare e illuminare. Il Dio di Gesù, e quindi lui stesso in quanto messia, trascendeva i limiti delle strutture dogmatiche di ogni possibile appropriazione o domesticazione interconfessionale. Il Cristo manifestato nella periferia della sua esistenza pre-rivelata doveva essere considerato come parte di una dinamica di azione divina che riguardava non solo i suoi, ma l’intera umanità, e altri modi d’intendere la fede, e che era particolarmente presente in situazioni universali critiche. Le citazioni da parte dei profeti Elia ed Eliseo dell’agire amorevole e misericordioso del Dio d’Israele nei confronti della vedova di Sarepta e del siro Naaman saranno un prologo dei suoi futuri incontri ecumenici. Basterebbe ricordare l’incontro con la donna samaritana (Giovanni, 4, 1-45) o quello con la donna siro-fenicia (Marco, 7, 24-30) e, naturalmente, il suo insegnamento nella parabola del buon samaritano citata prima. Che non succeda anche a noi quanto accaduto a quei conterranei e praticanti del racconto evangelico che, volendo rinchiudere Gesù nei loro dogmi, modalità e condizionamenti religiosi, si sono persi la sua omelia più importante e fondamentale, portatrice di liberazione, salute e visione, e al contempo di un periodo sabatico di pace universale.

In questo momento drammatico dell’umanità, in cui ancora non siamo usciti da una pandemia che ha approfondito le disuguaglianze sociali e provocato morte, malattia e fame, ma che ha anche suscitato forti interrogativi sull’ormai drammatico grido della terra e del pianeta, afferriamoci a questo Cristo universale. Un Cristo incarnato nella storia, nel suo popolo, nelle sue radici periferiche, ma che allarga sempre le sue braccia d’amore e di misericordia da e verso ogni tempo e all’umanità dalla quale prende la propria identità.

di Marcelo Figueroa