Poliedro - Dal carcere

Ostaggi di una vita ferma

 Ostaggi  di una vita ferma  QUO-005
08 gennaio 2021

Un viaggio all’interno di uno dei reparti di massima sicurezza
del carcere napoletano di Poggioreale
attraverso il dialogo con undici detenuti di età diverse


«Un clima di profonda condivisione, di scambio delle parti migliori, più costruttive di sé». Così Giovanni Starace — già docente di psicologia dinamica e psicologia clinica alla Federico ii di Napoli — descrive l’atmosfera del lavoro fatto per più di un anno con undici detenuti di un reparto di massima sicurezza del carcere di Poggioreale. Undici adulti di età diverse che nel corso di incontri periodici hanno potuto vivere «un modo del tutto inedito di stare insieme» mossi dallo stesso forte bisogno di condivisione. Incontri periodici che hanno dato loro anche la possibilità di mantenere un rapporto con il mondo esterno, un’esigenza primaria, questa, per coloro che vivono reclusi perché «la detenzione oltre a una separazione fisica dalla società, determina anche un isolamento mentale, un allontanamento dalla complessità psicologica della vita sociale a causa del confinamento in dinamiche ristrette tra persone tutte obbligate a vivere la stessa quotidianità».

Il risultato di questo percorso è ora raccontato in Testimoni di violenza (Roma, Donzelli, 2020, pagine 168, euro 19), che restituisce al lettore un panorama estremamente poliedrico: la vita quotidiana di persone appartenenti a organizzazioni criminali, le loro relazioni affettive, i rapporti tra la gente comune e la camorra, la vita interna ai clan e le relazioni tra loro. Si tratta di prospettive nuove sull’universo criminale perché questo viene indagato a partire dal mondo interiore dei protagonisti, una dimensione piuttosto inedita.

Raccogliendo itinerari biografici, ascoltando racconti schietti, duri e disincantati, e facendoli confrontare tra loro, Starace restituisce una realtà fatta di persone comuni e di individui parzialmente collusi con il mondo criminale, ma anche di soggetti appartenenti a quelle organizzazioni, rovesciando le visioni stereotipate di una camorra descritta come fenomeno totalmente egemone sul contesto assoggettato. Entrando nel cuore della vita dei clan, emerge piuttosto un’analisi lucida e ramificata delle dinamiche interne il cui minimo comun denominatore è dato dalla consapevolezza che tutto ciò che la camorra tocca si degrada. Le relazioni umane si deteriorano, i valori fondamentali della convivenza civile si corrompono delimitando un mondo a parte che alla fine sembra offrire solo due alternative. Il carcere o la morte.

Nelle voci degli undici detenuti ci sono racconti sui padri che si sovrappongono a quelli su loro stessi, ora padri; ci sono il degrado ambientale e le spinte distruttive che intossicano un intero tessuto sociale; c’è la violenza, regolatrice ultima dei rapporti tra le persone, «l’humus su cui le relazioni si costruiscono, lo strumento attraverso il quale ne vengono segnate le tappe ma anche l’epilogo» perché è proprio la violenza in tutte le sue possibili forme «l’agente principale che inquina il contesto sociale e lo degrada in profondità».

È pressocché impossibile trasgredire le regole di questo “mondo a parte”, racconta Starace, trattandosi di regole stringenti che non lasciano margini a comportamenti diversi. Allontanarsene è quasi impensabile una volta che il legame viene instaurato.

Il libro ritorna spesso su come e quanto ignoranza e scarsa esperienza siano autentiche autostrade per la criminalità. Se i figli dei poveri sono maggiormente alla mercé di chi può risolvere nell’immediato i loro problemi offrendo «una possibile salvezza», colpisce la consapevolezza di quanto, probabilmente, basterebbe poco per ribaltare completamente le cose.

«Paolo aggiunge, ripetendolo più volte, che se uno prendesse una decina di ragazzi che vivono per strada e li portasse a giocare a pallone o al mare d’estate, se avesse la possibilità di prendersene cura, sette di loro si salverebbero mentre questi tre che restano, e che non è riuscito ad aiutare, come li si vede nascere, così è probabile che li si veda morire». La criminalità, infatti, è abilissima ad “abbabbearli” cioè a circuirli.

Allo Stato gli undici detenuti chiedono dunque qualcosa in più e di diverso della semplice creazione di nuovi posti di lavoro. Chiedono, sulla base della loro esperienza («in un universo in cui le risorse materiali e affettive sono scarse») di ribaltare le carte all’origine.

«Viene reclamata un’attenzione diversa che porti a realizzare un piano organico e straordinario per aiutare i -giovanissimi a uscire da questo stato di necessità che li porta ad aderire alla camorra». Ci vorrebbe — ripete più volte Roberto — «più carcere nella scuola e più scuola nel carcere».

È vero — nota Starace — negli ultimi anni sono sorte molte iniziative a sostegno dei bambini e degli adolescenti, orientate specialmente all’istruzione e a una socializzazione positiva. «Ma, a loro giudizio, le attività intraprese sono scarse, frammentarie, inadeguate». Così se il desiderio più grande degli undici detenuti di un reparto di massima sicurezza di Poggioreale è quello di arrivare alla scarcerazione, si tratta però di un desiderio accompagnato da una forte preoccupazione: perché assieme alla speranza, camminano timori, ansia, apprensione e, a volte, pessimismo profondo.

Non è solo questione di partenza e di potenziale arrivo; di quel che li ha condotti in carcere e di quel che potranno trovare fuori. C’è anche il problema del tempo stesso della detenzione. Perché se è vero che qualcuno in carcere ha trovato la solidarietà, al contrario di quanto è sempre accaduto nella vita fuori, e se è vero che altri però parlano di «falsa solidarietà, di un accordo dettato da una relazione non scelta ma imposta» resta che quella del carcere — per come è oggi strutturato — è una vita ferma. «Un tempo che non va avanti».

Non è una lettura facile, quella proposta dal libro. Ma è una lettura lucida, e per questo molto utile per cercare di capire qualcosa di questo mondo a parte. Un mondo in cui «la verità dichiarata non è quella vera» e questo «perché la verità è semplicemente un’altra ed è questa: io sono più forte di te».

Il cammino è lungo, va preparato da lontano con cura e intelligenza. Ma è possibile; si può essere anche testimoni di altro. L’esperienza raccontata da Starace lo dimostra.

di Silvia Gusmano