Hic sunt leones
Clima incandescente in vista delle elezioni previste per il prossimo 14 gennaio

L’Uganda e la sfida
della democrazia

Manifesti elettorali nel centro di Kampala, la capitale ugandese (Afp)
08 gennaio 2021

Il clima elettorale in Uganda è incandescente in vista delle elezioni presidenziali e parlamentari in programma il prossimo 14 gennaio. Il giudizio dell’Unione europea (Ue) è severo: non invierà osservatori elettorali, perché le sue precedenti raccomandazioni, volte ad assicurare elezioni libere e democratiche, non sono state recepite. A pensarla così sono in molti, in particolare nell’ambito della società civile, soprattutto da quando la campagna elettorale è diventata sempre più violenta. Ma per comprendere cosa realmente sta avvenendo in quella che un tempo era considerata la «Perla d’Africa», occorre tornare indietro con la moviola della storia.

Chi scrive era nella capitale ugandese Kampala quando, il 29 gennaio del 1986, Yoweri Kaguta Museveni, giurò come presidente sulla gradinata antistante il palazzo del Parlamento, dopo aver preso il potere con le armi. Con i suoi uomini dell’Esercito di resistenza nazionale (Nra), aveva appena sgominato i suoi nemici, grazie soprattutto al sacrificio di migliaia di bambini soldato, i kadogos (piccoli), che costituivano l’ossatura dell’armata di liberazione. Era così riuscito a destituire il Consiglio militare presieduto dal generale Tito Lutwa Okello il quale, a sua volta, nel luglio dell’anno precedente, aveva rovesciato il regime di Apollo Milton Opeto Obote. Il successo dello Nra dipese anzitutto dall’estro di Museveni il quale aveva alle spalle una lunga militanza politica maturata in Tanzania, dove si era trasferito nel 1967 per frequentare gli studi universitari. Fu proprio in questo Paese che manifestò grande interesse per il socialismo africano dell’allora presidente Julius Kambarage Nyerere, elemento di spicco del cartello dei Paesi non allineati. Museveni nel 1970 si laureò in scienze politiche, giuridiche ed economiche presso l’Università di Dar es Salaam. Fu in quegli anni che entrò in contatto con i movimenti nazionalisti radicali conoscendo, ad esempio, il futuro leader sudsudanese John Garang e il suo omonimo etiope Meles Zenawi. Insieme ad un gruppo di studenti si recò in Mozambico dove venne addestrato alle tecniche di guerriglia dagli uomini del Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico), sotto la guida del loro leader Samora Machel, che lottavano per l’indipendenza del Mozambico, all’epoca ancora una colonia portoghese.

Il clima politico internazionale di quegli anni era polarizzato dalla guerra fredda, e fu proprio in quel periodo che Museveni maturò la convinzione che il blocco dei Paesi non allineati potesse sostenere l’autonomia delle nascenti democrazie africane. Particolarmente significativa, in questo contesto, fu l’amicizia che strinse con l’allora premier svedese, Olaf Palme. Non a caso la moglie di Museveni, Janet, insieme ai loro figli, vissero a Göteborg dal 1983 al 1986, fin quando fu loro concesso di rientrare in Uganda dopo la conquista del potere da parte dello Nra. Il primo punto dell’agenda politica di Museveni, annunciata nel giorno del suo giuramento come capo di Stato, fu chiarissimo: «restaurare la democrazia», precisando che si trattava di un «diritto inalienabile del popolo» e che l’istituzione del governo doveva essere concepita «a servizio del popolo».

Non v’è dubbio che egli ereditò un Paese allo sfascio ed ebbe il merito d’introdurre misure volte a stabilizzarlo. Oltre a promuovere un capillare sistema di autogoverno locale, avviò la privatizzazione delle aziende statali ed una serie di iniziative finalizzate alla riduzione della spesa pubblica. Nell’arco di pochi anni, la sua statura a livello internazionale crebbe e si consolidò nel contesto africano, e in particolare nella ridefinizione della geopolitica dei Grandi Laghi, dove da sempre sono in gioco considerevoli interessi economici e commerciali. Sostenne attivamente, insieme al presidente ruandese Paul Kagame, la prima guerra della Repubblica Democratica del Congo (1996-1997) aiutando le milizie ribelli di Laurent-Désiré Kabila nella lotta contro il dittatore zairese Mobutu Sese Seko. I due eserciti — ugandese e ruandese — invasero nuovamente il Paese vicino allo scoppio della seconda guerra del Congo (1998-2003). Rimane il fatto che nel frattempo Museveni — a detta dei suoi detrattori — ha progressivamente trasformato la propria leadership in una sorta di monarchia assoluta, modificando per ben due volte la Costituzione pur di restare al potere. Nel 2005 ha abolito il limite di due mandati presidenziali e nel 2018 ha rimosso quello dei 75 anni d’età per i candidati alla presidenza. Ciò gli ha permesso di candidarsi per un sesto mandato alle elezioni in programma il prossimo 14 gennaio, procrastinando così, fino al 2026, la sua presidenza. Purtroppo — ed è questo l’aspetto più preoccupante — già nelle precedenti consultazioni elettorali, chiunque abbia tentato di sfidare con convinzione Museveni nelle presidenziali è sempre stato sottoposto ad ogni genere di vessazioni. Ad esempio, il suo sfidante storico, Kizza Besigye (un tempo amico personale del presidente e suo medico personale) è stato costretto a subire continuamente intimidazioni, arresti e afflizioni d’ogni genere da parte delle forze dell’ordine. Besigye non si è comunque mai lasciato intimidire, accusando ripetutamente il suo avversario di brogli per vincere a tutti i costi ogni mandato. Sebbene Besigye abbia condiviso gli ideali della lotta di liberazione che portarono al potere Museveni nel 1986, ritiene tuttora che l’establishment presidenziale sia diventato una sorta di corte imperale, «un po’ come i “Cesari” che consideravano il senato di Roma una specie di salotto dell’impero». Nel corso degli anni, il regime di Kampala si è rivelato sempre più brutale nei confronti degli oppositori politici.

L’ultimo capitolo, nella storia recente della politica ugandese, è quello inaugurato nel 2019 da un giovane parlamentare, un certo Robert Kyagulanyi Ssentamu, meglio noto con il nome d’arte di Bobi Wine, il quale annunciò a sorpresa la sua candidatura alle elezioni presidenziali di quest’anno. Cantante e musicista ben affermato, egli è sopravvissuto ad arresti, pestaggi e ad almeno due attentati, con il risultato che è stato costretto ad andare in giro per il proprio Paese, durante la campagna elettorale, indossando un giubbotto antiproiettile. Emblematico è quanto accaduto il 27 dicembre scorso nella città di Masaka, nell’Uganda centrale, dove alcuni colpi d’arma da fuoco hanno colpito la macchina di Wine ferendo gravemente alla testa un giornalista televisivo che era seduto all’interno del veicolo. La guardia del corpo di Wine, di nome Frank, è uscito di macchina per fare largo all’ambulanza che veniva a soccorrere il ferito. Improvvisamente è sopraggiunta una macchina della polizia che ha urtato violentemente Frank, scaraventandolo al suolo; poi, facendo retromarcia, è passata con le ruote sul corpo della vittima che è rimasto sull’asfalto senza vita.

Wine aveva quattro anni quando il presidente Museveni salì al potere ed oggi, trentacinque anni dopo, Wine e Museveni si fronteggiano con due distinte visioni della politica. Il primo esprime il sentire di molti i giovani insoddisfatti e disoccupati, in un Paese in cui l’età media è di 20 anni. Museveni, 77 anni, è invece il suo esatto contrario: emblema di una politica che con il passare degli anni si è rivelata impositiva, mascherata all’occorrenza, ben radicata e pervasiva, capace di silenziare con ogni artifizio qualsivoglia forma di dissidenza. Una cosa è certa: gli interessi economici in gioco legati alla rielezione di Museveni sono molti. A parte il grande giacimento di petrolio del Lago Alberto, la nuova frontiera è il Karamoja. Considerata per decenni zona off limits per le frequenti violente razzie di bestiame, questa sperduta regione nordorientale è il nuovo Eldorado del Paese per le ricchezze nascoste nel suo sottosuolo in gran parte ancora inesplorato. Uranio, cobalto, oro, argento, grafite, platino, etc., sono almeno 13 i minerali scoperti una dozzina di anni fa in un territorio in cui le frequenti siccità e una situazione ambientale ostile avevano permesso solo ai karimojong di sopravvivere, seppur sotto la spada di Damocle della ciclica insicurezza alimentare. Al contempo, l’Uganda nel suo complesso è un Paese in cui la pandemia del covid-19, oltre a richiedere la mobilitazione del sistema sanitario pubblico e privato, ha causato non pochi problemi all’economia nazionale, penalizzando — come d’altronde è avvenuto non solo in Africa ma in molte parti del mondo — i ceti meno abbienti. È evidente che il futuro dell’Uganda, Paese tradizionalmente multietnico e multireligioso, è legato all’esigenza di affermare una partecipazione democratica del popolo. Quel popolo che, trentacinque anni fa, Museveni, nel suo discorso d’insediamento a Kampala, si impegnò a servire.

di Giulio Albanese