Per «resistere all’addomesticamento dello sguardo»

Vite invisibili

Particolare della copertina del libro edito da Sellerio
05 gennaio 2021

Gli «appunti dal Brasile che insorge» di Eliane Brum


Ci sono persone che nascono da adolescenti («I miei mi hanno registrato al comune quando avevo 15 anni, prima nemmeno esistevo»); persone assolutamente trasparenti («l’Uomo d’Acciaio non era preparato al più terribile di tutti i dolori: quello dell’invisibilità»), così come lo sono popoli interi (è invisibile il Popolo di mezzo con il 99% dei suoi abitanti privo di documenti). Ci sono uomini che vivono con la data di scadenza addosso («Vogliono mettermi paura. E ci riescono. Sono un uomo condannato a morte») e donne che si fa davvero fatica a guardare («Ha passato un anno a portare da mangiare al marito in carcere, è rimasta incinta e ha abortito quando lui è stato ucciso. Ha solo 17 anni. La sua vita non corrisponde ai suoi anni. Per questo ha uno sguardo morto. “Sogni? No, non ne ho”»).

Ci sono persone private di tutto, a partire dall’infanzia («Sembra che ci sia nata, a sfregare vestiti su una pietra, con il sapone penetrato nella pelle come unico profumo. A 4 anni l’hanno tolta alla madre per andare a fare compagnia alla figlia di una signora»), come anche persone private, in senso letterale, di pezzi di sé («Le avevano tolto tutto, persino i capelli, l’unica cosa bella che aveva: una padrona glieli aveva rasati per farsene una parrucca»). Ci sono status economici che definiscono il perimetro della speranza («“Le piacerebbe volare?”. “È il mio sogno. Ma […] i poveri non volano”») o che ridisegnano il confine tra la vita e la morte («Non c’è niente di più triste del funerale di un povero. Perché il povero comincia a essere sepolto in vita. (…) il funerale del povero è triste più per la sua vita che per la sua morte»).

Ci sono abiti che testimoniano il terrore di alcuni («Quella camicia raccontava anche la paura dei poveri, quella di essere additati come fannulloni. Sempre umiliati dalla polizia, obbligati a provare in ogni momento che non hanno rubato, non hanno ammazzato, non hanno dormito durante il turno, non si sono dati malati, non erano la persona sbagliata al momento sbagliato») e oggetti che terrorizzano per quanto mettono in crisi («Il numero 81 dell’avenida Bagé è il castello di un uomo che ha inventato un mondo senza avanzi. Dando valore a cose che non ne avevano, Oskar Kulemkamp ha dato valore a se stesso. Collezionando vite gettate via, Oskar Kulemkamp ha salvato la sua. Forse è questo il mistero del numero 81. E forse per questo spaventa così tanto»).

Ci sono figli che diventano genitori («È questo figlio silenzioso, che ha il coraggio di affrontare la carne materna, a trasformare l’atrocità della malattia in una premura quotidiana») e genitori per i quali non esiste nemmeno una definizione («Nessun idioma ha una parola per chi sopravvive a un figlio. Per un dolore simile non c’è posto nemmeno nella lingua»). Ci sono donne che rifiutano il ruolo di vittima, crimine di superbia e audacia «che l’umanità non perdona», e donne che preferiscono raddrizzare piuttosto che essere riddrizzate («Senza amore e senza soldi, senza nemmeno parenti, ora persino senza movimenti, Rosa ha trasformato la vita in versi»). E ci sono uomini che morendo sono costretti a rinunciare non solo alla vita, ma anche a tutto ciò che hanno creduto di essere o di «aver vissuto».

Sono solo alcune de Le vite che nessuno vede (Palermo, Sellerio 2020, pagine 256, euro 16, traduzione di Vincenzo Barca) che Eliane Brum tratteggia nei suoi Appunti dal Brasile che insorge, come recita il sottotitolo. «Ogni volta che visito l’Europa o gli Stati Uniti, mi accorgo che per la maggior parte di voi il Brasile non esiste. O esiste solo nello stereotipo carnevale e calcio. Favela e violenza. Negli ultimi tempi, per il tasso di corruzione». Così è un altro Brasile che prende forma nelle pagine di Brum, che nel 1998 ha iniziato a girare l’Amazzonia per ascoltare le storie di persone, animali e alberi, storie pubblicate su diversi giornali e ora raccolte in un libro incredibile. Incredibile per quello che racconta («Storie talmente reali da sembrare inventate»), e per come lo fa.

Perché quel che Brum fa — affascinata come è dal «modo in cui ognuno inventa una vita, per quanto nudo e con pochissimi mezzi» — è dare voce e corpo agli «inaccadimenti». Brum scrive — ci spiega — «per mostrare che non esistono vite comuni, ma solo sguardi addomesticati (…). Resistere all’addomesticamento dello sguardo per trovare la singolarità della vita di ciascuno»: è questo il filo che cuce ogni reportage. Il contenuto politico di quegli inaccadimenti, termine Brum inventa per descrivere il suo modo di fare giornalismo, «sta nel fatto che nessuno è sostituibile. (…) Voglio raccontare un “inaccadimento” perché esso possa accadere».

Tra le tante storie — dolorose ma piene di dignità, poche vincenti, pochissime a lieto fine, ma tutte piene di poesia combattente — ci sono le «madri vive di una generazione morta» cancellata «dal futuro a colpi di pistola», storie che non sembrano possibili. Perché come lo immagini il tempo e il cuore di una madre che si spacca la schiena per comprare le bare dei suoi figli, giovani e vivi? Una madre «intenta a vegliare il corpo vivo dei figli»? Eppure esistono queste storie vere a dimostrazione di come la realtà possa infliggere un dolore «che l’immaginazione non conosce».

«Questa saga di morte — scrive Brum — sembra uscita da un racconto dell’orrore. La storia di una madre che compra la bara per dei figli in salute e che hanno meno di 20 anni, in attesa di seppellirli l’uno dopo l’altro». C’è Selvina Francisca da Silva che ne ha persi quattro (e un quinto scompare quando Brum la conosce); c’è una Selvina ma ce ne sono cento. Sono le madri dei morti nel traffico di droga, «sono loro gli uteri che generano soldati per la narcopatria. I loro figli cadono sotto i coltelli, le pallottole, le granate. Non come episodi eccezionali, ma come fatti quotidiani. Nel seppellire un figlio e scoprire che un altro ha preso il suo posto, queste donne sono proiettate un passo oltre la follia». C’è una Selvina ma ce ne sono cento. E l’ultima Selvina che Brum conosce parrebbe addirittura una Selvina sorridente. «Quando la testa del nipote spunta in fondo alla strada, Eva è felice: ha guadagnato un altro giorno. E piange il domani in cui quel paesaggio sarà vuoto. In un’altra periferia del Brasile, un altro nipote, cresciuto da un’altra nonna, madre di un altro figlio assassinato, aspetta. “Sto diventando grande, sono grandicello ormai”, dice il bambino tornando da scuola. “Mio padre è stato ammazzato da un vigliacco. Lui adesso ha 16 anni. Mi manca mio padre. Lo volevo vivo”. Il bambino ha 7 anni. E vuole crescere non per fare il pompiere, il medico o il calciatore. Vuole crescere per uccidere un altro ragazzo».

Spesso le storie che Brum racconta sembrano lontane; e almeno la distanza parrebbe quasi proteggerti, lettore che vivi dall’altra parte dell’oceano, a un’altra latitudine. In quella che parrebbe un’altra galassia. Poi però volti la carta e quel Brasile «che esiste solo al plurale» tanti sono gli elementi che lo compongono, arriva a includere anche te. E così ti ritrovi ad ascoltare — narrate da lì, narrate da Blum — storie che si svolgono proprio qui, accanto a te. È il caso de La casa dei vecchi. Che sono vecchi qui, come lì, che qui come lì «guadagnando anni, hanno perso affetto, amicizia, calore. Vivono più dei loro genitori e dei nonni. Vivono più soli. La morte sociale arriva prima dell’ultimo battito del cuore. I passi sono troppo lenti per la velocità di un mondo che non perdona cadute. Sono diventati evidenze inopportune. (…) Avvizziti, vacillanti, i vecchi sono lo scomodo ricordo non del passato, ma del futuro che aspetta tutti».

I vecchi e quella tragedia che è l’ospizio. «Di colpo se lo videro davanti, il cancello di ferro della casa dei vecchi. (…) Ridotti a un unico tempo verbale, il passato, con un presente traditore e un futuro che nessuno vuole. Anche loro avevano sempre pensato che la vecchiaia dovesse toccare ad altri. Non avevano mai immaginato di trovarsi davanti a quel cancello. Sulla soglia, scoprirono che un passo può valere un abisso. Sono stati lasciati lì perché qualcun altro ha deciso che il loro tempo è scaduto. Sbattuti in una casa che non è la loro, tra mobili estranei, facce che non riconoscono, memorie che non trovano posto. Ridotti a raccontare storie che nessuno vuole sentire, perché sono passate». Quasi tutti venuti qui senza sceglierlo, «sono arrivati davanti al cancello con la dignità ridotta in briciole, nella valigia le cianfrusaglie più care e le foto di gioventù, di quando i figli erano piccoli e li stavano a sentire, di quando avevano le redini della loro vita in mano e quelle mani non tremavano nell’afferrare il corrimano delle scale». Brum entra per ascoltare chi vive in questo «rifugio inventato per tenere nascosto chi non ha un posto nel mondo ed è stretto tra il progresso della medicina, che gli ha permesso di arrivare fin lì, e una società che valorizza solo la gioventù».

Brum riesce a vedere, e a farci vedere, queste vite che nessuno vede non perché sappia scrivere, e scrivere bene; non perché abbia una cura che in pochi hanno («Sono stata subito preda di un’angoscia ineludibile, quella di impoverire la vita quando la confiniamo in parole»); non perché impari dai suoi sbagli («Non avevo ancora abbastanza anni per sapere come trattare la fragilità di una vita umana davanti alla morte»).

Brum vede, e ci fa vedere, queste vite perché sa ascoltare. «Ciò che le persone dicono, il modo in cui lo dicono, le parole che scelgono, l’intonazione che usano nel parlare e i momenti in cui invece tacciono, rivelano tanto, e anche più, di loro stessi quanto il contenuto del loro discorso. Ascoltare è qualcosa che va oltre il sentire. Ascoltare vuole dire impossessarsi del ritmo, del tono, dello spessore delle parole. Ascoltare significa cogliere il detto quanto il non detto. Ascoltare è capire che anche il silenzio parla — o che le persone continuano a dire quando hanno smesso di parlare (…). Ascoltare vuole dire aspettare il tempo di ognuno — il tempo della parola e quello del silenzio».

di Giulia Galeotti