Processo all’arte cristiana?

Che bambino fu Gesù?

Maurice Denis, «Nazareth» (1905)
05 gennaio 2021

Quello di François Bœspflug non è soltanto uno studio formale sull’arte ma un viaggio teologico nell’immaginario artistico dell’infanzia di Cristo


Paul Klee, figlio di una cantante e di un violinista, disse che «l’arte non riproduce soltanto ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è». Molti segmenti dell’infanzia di Gesù, al netto di una selva bibliografica esegetica dai confini sterminati, sono ordinabili nel genere dell’invisibile. In altre parole, la quotidianità di Gesù Bambino e della sua famiglia rimane un segreto preziosissimo per l’intera posterità. Il silenzio straordinariamente discreto degli evangelisti è sì lo scrigno impenetrabile di tale segreto, ma anche, come ogni silenzio che si rispetti, provocazione di un travolgente desiderio di sapere. Nei secoli, tale provocazione ha trascinato persino gli uomini «meno provocabili» nei sentimenti religiosi; pensiamo, tra gli altri, a un autore di netta caratura «gentile» come Jean-Paul Sartre e al suo Bariona e il figlio del tuono, al suo piccolissimo Dio da «prendere tra le braccia e coprire di baci», alla madre, che si compiace della sua somiglianza con lui: «È Dio e mi assomiglia!».

L’arte figurativa, tra le altre, ha tentato di colmare questi segmenti di silenzio, d’interpretare «il segreto preziosissimo» della Santa Famiglia, la famiglia umana che aprì le porte del nostro mondo a Dio (Spe salvi, 49). L’esperto di arte cristiana, François Bœspflug, che ha ricoperto la prestigiosa Cattedra Benedetto xvi nel 2013, col suo Gesù fu veramente bambino? Un processo all’arte cristiana (Milano, Jaca Book, 2020, pagine 164, euro 50, traduzione di Alessandro Cavo) ha perlustrato in lungo e in largo il vasto universo delle opere d’arte che hanno Gesù Bambino come soggetto o motivo principale.

Il risultato non è soltanto uno studio formale sull’arte, ma un viaggio teologico nell’immaginario artistico dell’infanzia di Gesù. Proprio così, «un viaggio teologico», di straordinaria dignità, perché le opera d’arte sanno essere eccezionali loci theologici, quando vogliono, e questo saggio è perfettamente in grado di dimostrarlo.

Le moltissime rappresentazioni della giovinezza di Gesù sono molto più che semplici manufatti d’arte: esse riflettono le congetture teologiche, la pietà popolare, e persino le visioni mistiche, spesso trasformatesi in convinzioni profonde, durature e ampiamente condivise su chi sia stato Gesù prima dei trent’anni. Bœspflug ci fa notare come la maggior parte delle opere incentrate su un Gesù «non ancora adulto» hanno dato un notevole sostegno all’idea che quel bambino non abbia avuto una vera infanzia, nella misura in cui era prestissimo, o persino da subito, perfetto in tutto e abitato dall’idea della sua missione di Redentore, destinato alla morte sacrificale in croce (si ricordi la lunga e doloristica serie di Gesù bambini benedicenti, ieratici, addormentati sulla croce o la lunga serie di bambinelli dediti a giocherellare con le arma Christi, corone di spine, chiodi, lance sormontate da spugne).

Gesù è un bambino modello, in sé già compiuto come un essere adulto; la sua famiglia perfetto esemplare di armonia, pace e concordia, e perciò meritevole dell’imitatio pietatis. Sono molto meno numerose le opere d’arte in cui Gesù sia rappresentato come un bambino concreto, che impari, che si perfezioni progressivamente, come accade in rarissimi casi quali La Vergine insegna a leggere a Gesù bambino di Pieter Fransz de Grebber o nel ciclo dell’infanzia della Puerta de Reloj della cattedrale di Toledo, in cui si raffigura un Gesù bambino seduto ai piedi di un maestro (probabilmente il famoso Levi di cui parla il Vangelo dello Pseudo Matteo).

La scarsa rappresentazione di Gesù come bambino «apprendente» pone serie questioni di ordine teologico: è come se l’arte cristiana, dalle sue origini e comunque dal medio-evo centrale, avesse temuto di rappresentare il «Dio bambino» come un normale bambino, quasi che rappresentare un Gesù «in formazione» significasse rinnegare il concilio di Nicea. Come può Iddio imparare?

Nel Seicento, Maria di Agreda, con la sua Mistica città, sostenne che Gesù Bambino aveva avuto un’estasi del terzo tipo nella fase prodromica del parto, al termine del quale egli sarebbe venuto a conoscenza, prima ancora della fine del travaglio, di essere Dio e Signore del mondo. Simili ipotesi mistiche hanno certamente influenzato la tendenza degli artisti a rappresentare Gesù come un bambino che non ha da imparare nulla, già consapevole d’ogni cosa e cosciente della sua missione sulla Terra: il contrario, per la sensibilità dell’epoca (e forse anche per la nostra), voleva dire sconfessarlo quale Dio.

Il riconoscimento dell’infanzia di Gesù, nella sua «normale» progressione, invece — questo pare suggerire lo splendido saggio di Bœspflug — non comporterebbe alcuna negazione del suo essere “vero Dio”, ma confesserebbe in maniera più adeguata il suo essere anche “vero uomo”. Ridurrebbe cioè quella tendenza inconscia dell’arte a un «docetismo tinto di monofisismo» (è forse questo il capo d’imputazione del «processo all’arte cristiana» cui fa riferimento il sottotitolo dell’opera).

L’autore, in realtà, non manifesta alcuna intenzione animosa nei confronti dell’arte cristiana, ma se ne serve, e sapientemente, per costruire un meraviglioso itinerario attorno alla domanda giudiziale del suo brillante processo: «Gesù fu veramente bambino?»

È lecito immaginare Gesù Bambino mentre viene sgridato da sua madre, come ogni altro bambino, oppure in un contesto di laboriosa acquisizione, studio, apprendimento? È possibile immaginare un Gesù «in formazione» e non già tutto risolto nella sua santa virtù e onniscienza? Non ci è possibile, almeno in sede giornalistica, dare una risposta definitiva a queste domande, ma ci consentiamo di proporre alcuni interrogativi di rincalzo: un uomo che abbia in sé, sin dal grembo materno, la verità «tutta intera» può essere giudicato «vero uomo»? Un uomo che mostri d’essere soltanto assertivo può essere un «vero uomo»? Un uomo privo di desiderio di sapere possiamo considerarlo un «vero uomo»? Il silenzio degli evangelisti sugli anni di formazione del Cristo, non ci permette di indicare opzioni risolutive a questi interrogativi, ma è altresì possibile tentare una riflessione fondata su quanto ci è dato sapere dal resoconto dei Vangeli.

Gesù, dopo i trent’anni, era sì un autorevole maestro, ma un maestro che amava porre domande, molto più che dare risposte. Il biblista Ludwig Monti nel suo Le domande di Gesù (Edizioni San Paolo, 2019) ne ha contate ben 217. Alcune di esse sono, con tutta evidenza, soltanto domande retoriche, altre invece paiono animate da un autentico desiderio di conoscere l’interlocutore, da una reale curiosità per l’Uomo. Il Gesù che, all’uscita di Gerico, domanda al cieco Bartimeo «Che cosa vuoi che faccia per te?» (Marco 10, 46-52) è un Dio che ascolta, è un Dio che sta «prestando attenzione» ai desideri più profondi di chi ha dinnanzi, senza darli per scontati. Probabilmente Egli già sapeva, ma era lì, umilmente disposto ad ascoltarci. L’umile Verità cristiana è tutta stretta in quell’esemplare ascolto dell’altro, di cui Gesù è raro testimone.

di Roberto Rosano