In un saggio di Lucio Coco maledizioni e anatemi contro i ladri di libri

C’è un furto in biblioteca

Carl Spitzweg «Il topo da biblioteca» (1850)
05 gennaio 2021

«Inter folia fructus»: le perle di saggezza contenute nei libri vanno preservate. La cultura che trasuda dai vetusti e ingialliti fogli di un manoscritto va tutelata, come pure la ricchezza spirituale che impregna le pagine di un volume. Purtroppo si aggirano furtivi coloro che intendono predare e saccheggiare i saporosi frutti di questa “biblioteca”. S’impone quindi una missione: quella di escogitare metodi per sconfiggere i malintenzionati. Più che meritorio dunque è il bellissimo e dotto saggio di Lucio Coco Contro i ladri di libri. Maledizioni e anatemi (Firenze, Le Lettere, 2020, pagine 80, euro 13,50) che pone l’accento su una questione urgente e sempre attuale.

All’atto criminoso di rubare i libri strettamente si lega «la furia di averli» come sottolinea la nota introduttiva firmata da Edoardo R. Barbieri che ricorda come Antonio Brucioli (dedicando nel 1532 la sua traduzione italiana della Bibbia a Francesco i di Francia) suggerisse al re di porre un simile libro fra i tesori della corona, custodendolo in un forziere, così come aveva fatto Alessandro Magno con l’opera di Omero. Si tratta di una concezione della “preziosità” del testo — evidenzia Barbieri — che prescinde dal valore del suo supporto materiale, come accadeva con i vetusti manoscritti recuperati dagli umanisti, andati irrimediabilmente perduti, dopo che ne erano state copiate (e quindi) salvate le antiche (e per tanti secoli dimenticate) parole.

Quello che traccia Coco — come rileva Barbieri — è un percorso minuzioso, che si snoda fra una vasta massa di fonti e testimonianze, illuminato dalla consapevolezza dell’importanza che riveste il dialogo incessante tra il libro e il lettore. Non si spegne certo l’eco della sentenza del retore Terenziano Mauro, di quell’unico verso per cui è passato alla storia: Pro captu lectoris, habent sua fata libelli. Il destino dei libri è legato non ai proprietari legittimi o meno, ma alla capacità dei lettori di capirli, all’interesse che sanno suscitare in chi si accosta e, fatto silenzio, decide di ascoltarli.

Coco ricorda anzitutto che l’elogio del libro rappresenta quasi un topos letterario. Richard de Bury (1287-1345) nel Philobiblon utilizza il primo capitolo dell’opera per tesserne le lodi con toni lirici: «Nei libri ritrovo vivi i morti, nei libri prevedo il futuro, nei libri trovo le geometrie dell’arte bellica e dai libri escono le leggi della pace». In questo scenario s’inserisce la letteratura sulla cura dei libri, che risulta essere «amplissima». In un manoscritto dell’abbazia di Montecassino del decimo secolo si trova questo avvertimento: «Chi toccherà questo libro lo faccia con le mani pulite». Sulla stessa lunghezza d’onda si pone san Pier Damiani che facendo riferimento al rischio dell’utilizzo delle candele per leggere in assenza della luce naturale, ammonisce: «Il monaco custodisca i santi libri facendo attenzione a non mettere le mani sulle lettere, a non annerirli con il fumo e a non permettere che li lambisca il fuoco».

Nell’addentrarsi nella fosca temperie del furto dei libri, Coco sottolinea che tale azione minaccia anzitutto la biblioteca: tanti, troppi, sono stati i furti dei libri nella storia. Giusto Lipsio (1547-1606) nel De bibliothecis syntagma, dopo aver premesso che «i romani erano più figli di Marte che delle Muse», dà alcuni ragguagli sulle sottrazioni di libri operate dai generali dell’Urbe. Dopo la vittoria su Perseo (168 a.C.) il console Emilio Paolo trasferì a Roma, come parte del bottino di guerra, la biblioteca del re macedone. La libreria di Lucullo si era formata con i volumi sottratti a Mitridate durante la guerra del Ponto (74-67 a.C.). Lo stesso vale per la biblioteca di Apellicone di Teo, appartenuta ad Aristotele che, rilevata dal generale Silla dopo la presa di Atene (86 a.C.) fu usata anche da Cicerone.

Per scongiurare possibili furti di libri, si è fatto ricorso nella storia anche ad anatemi e maledizioni. «La più antica maledizione di cui vi è traccia in occidente — scrive l’autore — è quella che accompagna la donazione di alcuni beni fatta da Theodetrude all’abbazia di Saint-Denys. La charta porta la data del 627. Alla fine del documento sono vergate queste parole: «Chiedo e dichiaro davanti a Dio e ai suoi angeli e a ogni nazione che nessuno ritenga di fare opposizione a Saint-Denys contro la mia determinazione circa le cose che sono assegnate da me attraverso questo scritto. Qualora ciò accada, e uno avrà agito in tal modo, l’eterno re assolva i miei peccati e quel maledetto, colpito a anatema, discenda nell’inferno inferiore per essere tormentato insieme a Giuda e il peccato che ha compiuto ricada sui figli e sulla sua casa».

In un manoscritto del monastero di Ripoll in Catalogna, risalente al decimo secolo, si legge: «Questo libro è del monastero di sant’Eripio. Se qualcuno lo ruba o ne strappa i fogli sia anatema». Sulla prima pagina di un manoscritto dell’undicesimo secolo, dell’abbazia belga di Lobbes, dopo l’indice c’è la seguente iscrizione: «Libro della chiesa di Pietro di Lobbes: a chi lo custodisce benedizione, a chi lo asporta maledizione».

L’ammonimento, severo e perentorio, si declina in varie forme. In un manoscritto della Biblioteca Marciana (tredicesimo secolo) contenente l’Ars demonstrativa veritatis di Raimondo Lullo, spicca un particolare tipo di condanna, quella dell’inquietudine eterna: «Chi mi ruberà non abbia requie». Mentre sul primo foglio di un altro manoscritto, sempre del tredicesimo secolo, proveniente dalla chiesa di san Giacomo di Wigmore, la punizione che viene prospettata è quella della scomunica: «Questo libro è di san Giacomo di Wigmore. Se qualcuno lo vende o ne cancella con malizia questa iscrizione nel portarlo via dal predetto luogo, costui sia legato alla catena della più grande scomunica».

In epoca moderna — afferma Coco — la scomunica in un certo senso ricapitola tutte le punizioni che una volta erano pensate per i ladri di libri. Essa diventa un istituto giuridico per combattere i crimini che poteva essere perpetrati anche contro i libri. A tale riguardo si tramanda che nel 1752 Benedetto xiv avesse emesso una bolla di scomunica nei confronti di ci avesse osato depredare i volumi della biblioteca Zaluski di Varsavia. Un tono simile aveva usato in precedenza Clemente xi : in un breve si dichiarava che «è scomunicato ipso facto chiunque ardisce estrarre o portar fuori qualunque libro, codice, scrittura, quinterno o foglio, sì stampato come manuscritto, e qualsivoglia altra cosa spettante alla libreria casanatense».

di Gabriele Nicolò