L’agnosticismo scomodo e la sua speranza

varobj3576131obj2035841.jpg
04 gennaio 2021

Passiamo la vita adulta a schivare le domande più difficili, quelle che nascono come curiosità da bambini, e ci assalgono come dubbi quando siamo anziani. Tra queste risalta la domanda sull’esistenza di Dio. È la più importante non solo a causa dell’argomento, ma anche perché la risposta è la prima tessera del domino rappresentato dalla nostra vita. A seconda di come cade la “tessera di Dio” seguono ricadute diverse su scelte e speranze, certezze e paure, gioie e dolori, significati e comportamenti. Tutto ciò è vero anche per gli inconsapevoli. Ogni vita umana si può interpretare come una risposta nei fatti alla domanda su Dio (una testimonianza, si direbbe in termini meno laici). Gli atei danno una risposta negativa, anche se solo implicita. Alcuni di loro, quelli militanti, hanno tanta fede nell’inesistenza di Dio quanta i credenti ne hanno nella sua esistenza. Per loro l’impossibilità di Dio è una religione dell’assenza, alla quale, incoerentemente, non applicano le stesse obiezioni che muovono contro una religione della presenza. Ci sono poi atei anche tra i praticanti, i religiosi, gli ottemperanti, che non negano Dio a parole ma si comportano di fatto come se Dio non esistesse. Sono i farisei che “dicono e non fanno” (Matteo 23, 3). Agli atei si antepongono i teisti. Non si tratta solo di coloro che credono nell’esistenza di Dio, perché anche in questo caso conta la prassi: molte persone che affermano di essere non credenti poi di fatto si comportano come se Dio esistesse. Le chiamiamo spirituali, coscienziose, buone, pie. Infine, ci sono gli agnostici. Siamo un grande popolo di incerti, spesso ignorati dal dibattito tra atei e teisti.

Alcuni sono agnostici pigri, ai quali manca la volontà di decidere da che parte stare. È l’agnosticismo comodo, per adattare un’espressione usata negativamente da Papa Francesco, che caratterizza la vita distratta, superficiale, disimpegnata, irriflessa. Gli agnostici comodi, nel dubbio, si astengono o rimandano, senza capire che questo è già decidere: Dante li mette all’Inferno come ignavi.

Invece, l’agnosticismo scomodo è quello che cerca risposte e soffre per la loro assenza. Un agnostico scomodo è come un assetato nel deserto: se non si disseta è per impossibilità, non per pigrizia. Rifiuta di essere catalogato come mero non credente insieme agli atei, perché non crede nell’inesistenza di Dio, anche se non è in grado di credere nella sua esistenza — non più, per uno come me “agnostico di ritorno”, o non ancora, per chi la fede non l’ha mai avuta ed è “agnostico di partenza”. Non ha, o ha perso, la fede nella presenza di Dio senza aver acquisito la fede nella sua assenza. Ha sete, ma non sa se c’è fine all’aridità del deserto.

L’agnostico concorda con credenti e non credenti su un punto di partenza. Se Dio esiste, esiste necessariamente, come un triangolo che necessariamente ha tre lati, non come un triangolo che è accidentalmente blu. Al contempo, se Dio non esiste, non esiste necessariamente, come non esiste un triangolo quadrato, non come una scultura triangolare mai realizzata ma che sarebbe potuta esistere. Si tratta del punto di partenza del famoso argomento ontologico a favore dell’esistenza di Dio. Purtroppo, nel corso dei ragionamenti che seguono da questo punto, i disaccordi crescono, l’incertezza aumenta, e l’agnostico torna a dubitare scomodamente, incerto tra chi ritiene l’argomento ontologico una dimostrazione inconfutabile, come Cartesio, Leibniz, Hegel, o Gödel, e chi lo rigetta come una fallacia logica, come Kant o Russell.

Ciò non toglie che anche l’agnostico può essere pio. È così che Papa Francesco ha definito Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food, per la sua “pietà per la Natura”. L’agnostico pio si comporta meglio di certi farisei. Su questo l’enciclica Fratelli Tutti ha parole molto gentili. E se è un agnostico non solo scomodo ma anche “di ritorno”, sa che la perdita della fede è la più grave di tutte, perché rende tutte le altre perdite definitive. Senza Dio, ogni morte è perenne; il dolore è irriscattabile; l’ingiustizia è irrimediabile; l’assenza di significato è incolmabile. L’assenza di Dio è l’eternità del male non come qualcosa, ma come evento irreversibile. Solo la presenza di Dio può annullare il male e ripristinare (non meramente restaurare) il bene come intatto. Sono costi tragici, che il credente non è disposto a pagare; che l’ateo deve avere il coraggio titanico di affrontare; e che l’agnostico pena a far quadrare.

L’agnostico sa anche che senza Dio viene meno l’opportunità di essere grati per tutto quel bene che accade senza alcuna ragione apparente. Senza Dio il male è tragicamente permanente, e il bene naturale — quello che non è dovuto alla volontà umana — è solo casuale, come l’incontro fortuito con la persona che si ama, e tutte le altre cose belle per le quali non si può ringraziare nessuno. Anche i romani ringraziavano la dea Fortuna, e i greci potevano essere grati a Agathe Tyche, la “Buona Sorte” (tyche in greco significa “accadere per caso”). Invece l’ateo può solo congratularsi con se stesso per essere stato fortunato, mentre all’agnostico resta il dubbio se si tratti di casualità o causalità, accidente o disegno. L’impossibilità di essere grati per il bene naturale ricevuto è una perdita profonda perché la solitudine della gioia ne diminuisce il valore. Come nel caso dell’assenza della fede, anche il bene naturale ha un valore doppio: di base, in quanto bene, e aggiunto, come bene che è parte di un contesto condiviso più ampio anch’esso buono. Così la gratitudine per il bene ne esalta il valore, come una bottiglia di vino, che è più buona se condivisa con altri.

L’agnostico “di ritorno” rimpiange la fede senza essere in grado di riottenerla. Ha tuttavia una consolazione. Nel famoso passo della Prima Lettera ai Corinzi, San Paolo elenca le virtù teologali: «Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!» (1 Corinzi 13, 13). Il credente può praticarle tutte; all’agnostico ne manca una, la fede, perciò si avvicina al credente per due terzi. Entrambi condividono con l’ateo la carità che quindi, anche in versione secolare e non paolina, resta la virtù più importante, perché accomuna tutti: credenti, non credenti, e agnostici. Ma è sulla speranza che l’agnostico può focalizzarsi. Per chi dubita dell’esistenza di Dio sul serio, come chi dubita di aver vinto o meno alla lotteria, la fede si scontra con la ragione e con i fatti, ma la speranza resta un’opzione ragionevole. È irragionevole credere di aver vinto alla lotteria, ma è ragionevole sperarlo. Per l’agnostico credere nell’esistenza o nell’inesistenza di Dio è impossibile, ma sperare che Dio esista e quindi comportarsi di conseguenza resta un’opzione del tutto plausibile, anzi diventa una virtù della ragione conoscitrice (epistemica, diremmo noi filosofi). Perché se la scelta è tra sperare che Dio esista e sperare che Dio non esista, la risposta è semplice. Il Salmo 14, dal quale parte la prova ontologica per l’esistenza di Dio, dice che: «Lo stolto ha detto nel suo cuore “non c’è Dio”». Tradotto in una teologia della speranza si può allora dire che solo lo stolto spera che Dio non esista, che il bene sia transeunte, e che il male sia perenne. Perciò all’agnostico scomodo, che non riesce a scommettere ragionevolmente come Pascal sulla fede, rimane la virtù epistemica di investire nella speranza, restando incerto senza essere stolto.

di Luciano Floridi