LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
La Chiesa narrata durante il lockdown

Ciò che inferno non è

epa08340709 NGO worker and organizer of food handouts and homeless shelters, Tarryn Johnston (C) ...
04 gennaio 2021

Il volume Pandemie mediali. Narrazioni, socializzazioni, e contaminazioni del mediavirus, a cura di Vania De Luca e Marica Spalletta, (Aracne editrice, Roma 2020, pagine 584, 28 euro) uscito nelle settimane scorse nelle librerie, raccoglie le riflessioni di accademici, ricercatori, giornalisti, comunicatori, esperti di diverse discipline, impegnati ad analizzare come il virus globale abbia ridefinito tempi e modi del nostro vivere quotidiano e ne abbia «infettato ogni ambito, dalla politica all’economia, dalla scuola al lavoro, insinuandosi nelle dinamiche democratiche e generando una vera e propria pandemia anche nell’ecosistema mediale». Pubblichiamo di seguito lo stralcio di uno degli interventi contenuti nel volume.

La narrazione della vita della Chiesa durante il periodo più drammatico della pandemia in Italia si è focalizzata su tre soggetti in particolare. Protagonista principale è stato il Papa, con i suoi gesti simbolici e la sua predicazione quotidiana. Molta parte nel racconto mediatico ha avuto anche la sospensione d’autorità delle messe e delle celebrazioni religiose, un unicum nella storia della Chiesa nel nostro Paese, che non poteva non provocare aspre controversie. Non è mancata infine in alcune cronache la sollecitudine delle comunità cristiane per lenire la grande sofferenza sociale causata dal blocco di tante attività lavorative; azione discreta e non strillata, proprio per questo forse meno raccontata da un’informazione che in tutti gli ambiti, il religioso come il politico, è più attratta dai giochi del palazzo che da quanto si muove, dal basso, nella società.

La comunicazione di Papa Francesco


Cominciamo dal Papa. Non c’è quasi bisogno di ripeterlo, tutti i media hanno ripreso con grande risalto i gesti pubblici di preghiera di Francesco. Ricordiamo i più solenni e importanti: l’affidamento del mondo alla protezione di Maria il 27 marzo e la Via Crucis del 10 aprile, entrambe nello scenario mozzafiato di piazza San Pietro; la celebrazione della Pasqua il 12 aprile in una basilica vaticana con i pavimenti lucidi e vuota di fedeli. Ha colpito soprattutto la potenza delle immagini, trasmesse in diretta da pressoché tutte le emittenti televisive italiane. L’impatto emotivo è stato notevole e ha raggiunto anche un buon numero di italiani “non praticanti”: il Papa solitario, nella piazza del Bernini bagnata al tramonto da una pioggia dai riflessi blu apocalisse, «il cielo di Blade Runner», come ha scritto un geniale commentatore su «la Repubblica» (anche se quella misteriosa colorazione forse era solo effetto dei filtri usati dalle telecamere in quel cambio di luce serale). In primo piano, nel racconto mediatico, la dimensione “teatrale” di questi gesti (nel senso buono del termine, la liturgia cattolica è da sempre anche “sacro spettacolo”); in secondo piano, ma non trascurate, le parole pronunciate dal successore di Pietro in giorni cupissimi, nei quali quasi mille italiani al giorno morivano soffocati dal virus e la gente viveva con angoscia l’isolamento nelle proprie case. «Siamo tutti sulla stessa barca…». Che si trattasse primariamente di gesti di fede, nati e pensati innanzitutto per aiutare e confortare la preghiera dei fedeli, questo restava molto sullo sfondo nelle cronache, ma forse non si poteva pretendere di più dai media, in una società in cui da tempo parole e riti cristiani hanno perso memoria e significato (una constatazione, questa, non un lamento). Meno spettacolari ma più penetranti nel vissuto delle persone — soprattutto sotto il profilo della fede e del sentimento religioso — sono state le omelie quotidiane del Papa a Casa Santa Marta per tutto il periodo del lock-down. Esperienza “comunicativa” che merita una riflessione a sé stante e un minimo di cornice storica. Fin dall’inizio del pontificato, le messe nella cappella della sua residenza in Vaticano, con omelia e partecipazione di un piccolo gruppo di fedeli, hanno rappresentato una forma nuova e significativa della predicazione papale. Non venivano però trasmesse in diretta, una sintesi era diffusa ogni giorno dai media vaticani. Sintesi preziose, divennero, specie nei primi anni del pontificato, un nutrimento spirituale insperato e abbondante per numerosi fedeli in tutto il mondo; il “luogo” dove era possibile attingere al “vero Francesco”, per chi non si accontentava del racconto mainstream tutto centrato sulle mille “curiosità” del personaggio Bergoglio e i risvolti politici dei suoi interventi (vuoi per celebrarlo, vuoi per denigrarlo). Sia a destra sia a sinistra l’establishment mediatico aveva finito per trascurare, se non ignorare del tutto, le omelie di Santa Marta. A sinistra, da tempo orfani di riferimenti ideali e leader carismatici, ci si aggrappava alla tonaca bianca del Papa valorizzando quasi esclusivamente le sue prese di posizione su importanti temi sociali, quali l’immigrazione, l’ecologia, la denuncia delle diseguaglianze sociali. A destra, lo si considerava un nemico temibile proprio su questi temi; per cercare di screditarlo presso la sua stessa base si doveva rappresentarlo artificiosamente come un Papa “ateo”, che parlava più di immigrazione che di religione. Così, in qualche modo, si registrava una convergenza nella raffigurazione mediatica di Francesco come un papa “politico”: le omelie di Santa Marta (ma si potrebbe dire lo stesso delle catechesi del mercoledì o delle meditazioni che accompagnano la recita dell’Angelus, insomma di tutto un magistero ordinario in realtà centrato sul commento dei vangeli e sulla figura di Gesù) a una parte non interessavano, e alla parte opposta risultavano non funzionali all’immagine manipolata del Papa secolarizzato. L’emergenza covid–19, senza volerlo, almeno per un paio di mesi ha rotto questo schema, liberato il Papa da una gabbia ideologica. L’8 marzo fu annunciato che le messe di Santa Marta dal giorno seguente sarebbero state trasmesse in diretta streaming e il segnale vaticano messo a disposizione di tutti i media che ne avessero fatto richiesta. In questo modo, comunicò il portale Vatican News, «Papa Francesco vuole manifestare la sua quotidiana vicinanza alle persone ammalate, alle persone in quarantena, alle persone impossibilitate a muoversi». Il 9 marzo, alle 7 del mattino, fu trasmessa per la prima volta integralmente la messa del Papa.

Lo stesso giorno, all’ora di cena, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava che tutta l’Italia da mezzanotte diventava zona rossa. L’impatto della messa di Santa Marta fu incredibile. In una prima fase, oltre ai siti web vaticani solo Tv2000, l’emittente della Cei, la trasmetteva live, in chiaro. Gli ascolti sfiorarono in pochi giorni il 10 per cento di share, con circa mezzo milione di presenze stimate davanti alla televisione. Numeri mai raggiunti dalla tv cattolica, che nel giornaliero naviga su una dignitosa media dell’1 per cento di share. Poi il 27 marzo anche la Rai, forse stimolata da questi dati di ascolto, annunciò che avrebbe tramesso la messa sulla rete ammiraglia. Il seguito popolare fu enorme, superiore a ogni previsione. In precedenza, in quella fascia oraria, su Rai1 gli ascolti oscillavano attorno al 14 per cento. La sobria messa di Santa Marta — che ben poco concedeva allo “spettacolo” — raggiunse in breve medie del 23 per cento. Sommando gli ascolti di Rai1 e Tv2000 si raggiungevano percentuali del 30 per cento. Nei titoli dei tg venivano riprese soprattutto le intenzioni di preghiera con cui Francesco iniziava la celebrazione, con una dedica specifica e ogni giorno diversa alle categorie più esposte (malati, anziani, medici, infermieri, studenti, ecc.). Ma era il commento alla Parola di Dio, nelle letture del giorno, la parte che più consolava e confermava la fede dei cristiani. Diversi cattolici, in passato critici verso il Papa, hanno confidato di aver rivisto il loro atteggiamento preconcetto, dopo aver seguito quelle celebrazioni. Fusione di semplicità e profondità, assenza di toni retorici e atmosfera familiare, queste le caratteristiche più apprezzate. Al centro delle meditazioni di Francesco sempre la figura avvincente di Gesù, e quasi, dicevano molti, mentre si ascoltavano le omelie era come essere lì con Lui in Palestina, mescolati tra la folla, discepoli o avversari, pieni di stupore, toccati nell’anima da quello sguardo. Non un personaggio del passato, una bella fiaba, ma una presenza a noi contemporanea. Personalmente ritengo che mai, in oltre sette anni di pontificato, Papa Francesco sia entrato nei cuori e nelle menti dei fedeli come in quelle messe mattutine trasmesse dal 9 marzo al 18 maggio, senza saltare mai un giorno. Mai forse Bergoglio è stato per il popolo così semplicemente e profondamente “Papa”: il successore di Pietro chiamato a confermare la fede dei fratelli. Perché questo è il compito primario del Vescovo di Roma, tutto il resto è un di più. Il tempo del covid–19, almeno per qualche mese, ci ha costretti all’essenziale: del cristianesimo mi interessa Cristo, se Lui non è vivo e non attrae più gli uomini e le donne del nostro tempo, figuriamoci quanto possano interessare il numero di uffici della Curia romana o le possibili eccezioni alla norma del celibato sacerdotale.

La Chiesa di una situazione difficile


Il secondo tema molto raccontato dai media è stata la decisione di sospendere tutte le celebrazioni religiose a partire dal 9 marzo. Niente messe, niente battesimi, niente comunioni e cresime, niente funerali. Mai si era visto qualcosa di simile in Italia.

L’impressione era tanta, le discussioni inevitabili. Nei suoi vertici la Cei ha tenuto un atteggiamento responsabile. L’indicazione, venuta dal Comitato tecnico scientifico e recepita dal Governo, è stata accolta con dolore ovviamente, ma attuata con scrupolo e convinzione dai vescovi. Ci si rendeva conto che il virus non scherzava e che ogni assembramento racchiudeva il rischio di conseguenze letali, soprattutto per le persone più vulnerabili. Nel dubbio, doveva valere il principio di precauzione, assumere le misure più rigorose. Salvare vite è un atto di carità.

A livello comunicativo si possono muovere certamente alcuni rilievi. Sembrò che l’ordine di sospendere le celebrazioni religiose fosse stato impartito ai fedeli direttamente dalle autorità politiche e non, come doveva essere naturale e giusto, dai pastori della Chiesa. Una mancanza di delicatezza da parte dello Stato, causata in parte da una mancanza di vera cultura istituzionale (c’è un Concordato in Italia che regola le relazioni fra Stato e Chiesa) e in parte dalla concitazione del momento, forse comprensibile, con i contagi alle stelle e il numero delle vittime che cresceva in modo agghiacciante. Soprattutto nella blogosfera cattolica si palesarono malumori e contestazioni condivisi anche da un certo numero (minoritario) di parroci e vescovi. La Chiesa fu volgarmente accusata di aver “calato le brache” di fronte al Governo giallorosso. Le frange più estreme agitarono lo spettro del complotto laicista, adombrarono oscure strategie massoniche, riempirono di insulti (come sempre) il Papa e anche il mite presidente della Cei, cardinale Bassetti. Riesce difficile confrontarsi razionalmente con queste posizioni. Bisognava davvero esporre al rischio del contagio, e quindi della morte, milioni di italiani? Si poteva davvero pensare che il buon Dio fosse più contento nel vedere le terapie intensive al collasso e ancora più bare trasferite su camion militari nei cimiteri lontani dalle zone più colpite? Certo, si potevano muovere rilievi alla politica forse un poco zigzagante della Chiesa nel dialogo con le autorità civili: politica apparsa a volte troppo remissiva e altre volte troppo aggressiva. Ma non si può ragionevolmente mettere in questione — come si strillava nei soliti blog oltranzisti — l’opzione di fondo, la scelta della responsabilità. Con il dolore per la lontananza fisica del popolo dai sacramenti, ma nella consapevolezza che quella fosse la cosa più giusta da fare, in serena coscienza, davanti al buon Dio e davanti al Paese. Sono circolati video di prelati barricadieri che invitavano i fedeli alla rivolta contro la sospensione delle messe e assicuravano con aria ispirata che il virus nelle loro chiese non poteva entrare, quasi per una sorta di magia divina. Per qualche imponderabile motivo, si è venuta poi a creare una saldatura politico–ideologica tra i contestatori del Papa e i negazionisti del covid.

Posizioni estreme, molto rumorose sul web ma fortunatamente abbastanza circoscritte nel mondo reale. Si deve dire infatti che la maggior parte dei fedeli, nelle parrocchie e nei movimenti ecclesiali, ha mostrato un grande senso di responsabilità accettando con esemplare disciplina le indicazioni ricevute dalla Chiesa e dalle autorità. Un effetto collaterale della sospensione temporanea delle messe è stata la discussione infinita sui benefici e sui rischi dell’uso dei social media, diventati in alcuni casi l’unico strumento per mantenere un contatto tra i membri di una stessa comunità cristiana. Anche qui, i commenti oscillavano a volte tra due poli estremi. Chi salutava, con entusiasmo fuori luogo, la nascita di una nuova Chiesa digitale, dimenticando che la fisicità del sacramento non è un accessorio nell’esperienza cattolica. E chi all’opposto considerava come uno snaturamento della fede cattolica anche solo l’iniziativa di alcuni amici cristiani che, impossibilitati a uscire di casa, si ritrovavano su Zoom per scambiare due parole guardandosi in faccia e magari recitare una preghiera insieme. Posizioni estreme, anche in questo caso minoritarie perché la maggior parte dei cristiani ordinari mostrava di saper distinguere tra il mezzo e il contenuto, così come tra condizioni normali di vita e la straordinarietà di un tempo di emergenza; seguendo in tv la messa di Santa Marta il cristiano medio era consapevole, per esempio, che quel rito non aveva lo stesso valore della partecipazione fisica a una messa nella propria chiesa, ma ne sapeva recepire ugualmente il valore di testimonianza e di preghiera, facendone tesoro per la propria vita spirituale. Forse alcuni sacerdoti si sono lasciati prendere un po’ troppo la mano, dedicando più tempo ai live di Facebook che a qualche concreto gesto di carità; ma nessuna persona normale ha mai pensato che un contatto “schermo a schermo” possa mai sostituire un’amicizia “faccia a faccia”, o che una preghiera davanti alla tv possa rimpiazzare la bellezza del ritrovarsi insieme la domenica a celebrare la Pasqua del Signore. D’altra parte, il primo a fare chiarezza su questo tema è stato proprio Francesco in pieno lock-down, il 17 aprile, durante un’omelia trasmessa in streaming: «Questa è la Chiesa di una situazione difficile, e il Signore lo permette, ma l’ideale della Chiesa è sempre con il popolo e con i Sacramenti. Sempre».

La vita in relazione delle comunità cristiane durante il lockdown


Assolutamente poco virtuale è stata l’azione di molte comunità cristiane per alleviare il disagio sociale deflagrato in conseguenza del blocco di molte attività economiche.

È stato ed è un lavoro impressionante, capillare, quartiere per quartiere, specialmente nelle periferie delle grandi città, ma non ha lasciato scoperto alcun lembo del territorio nazionale grazie soprattutto alla rete delle parrocchie, alla generosità di migliaia di volontari e al supporto della Caritas. Chi scrive le presenti righe ha visto da vicino questa realtà, nella sua parrocchia di Valle Muricana (oltre il grande raccordo anulare della capitale). Ha visto donne piangere di vergogna, ricevendo il pacco viveri distribuito fuori dalla chiesa, perché «mai avrei immaginato di trovarmi in questa situazione». Italiani del ceto medio–basso, il marito che perde un lavoro precario e la moglie impossibilita ad “andare a servizio”, i soldi che non bastano più per pagare l’affitto o le bollette. Il numero delle famiglie precipitate nella povertà aumentato a dismisura. Chi scrive ha avuto modo di vedere all’opera la macchina di solidarietà della Caritas. I volontari di ogni singola parrocchia — migliaia in tutta Roma — hanno partecipato a corsi online per studiare i provvedimenti legislativi decisi da Governo, Regione, Comune per aiutare le persone in difficoltà per il covid–19, hanno organizzato punti di distribuzione di generi alimentari, rafforzato i centri d’ascolto, attinto a vecchi e nuovi fondi della diocesi o del Papa per far fronte ai bisogni più impellenti (il pagamento di una bolletta inevasa, di un affitto in ritardo), cercando come priorità di facilitare un percorso di reinserimento nel mondo del lavoro.

Persone generose e preparate, che lavorano lontano dai riflettori, i volontari conosciuti in questi mesi. Una ricchezza umana e cristiana, che è giusto raccontare, con il garbo necessario. Scriveva Italo Calvino nel suo Invisible cities che per sperare, all’interno di situazione di “inferno”, occorre «riconoscere chi e cosa inferno non è, e dargli spazio e farlo durare». Ecco un bel programma per chi, come noi, ama ancora questo mestiere perché ama raccontare la realtà.

di Lucio Brunelli