Duri il paradosso di Natale

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02 gennaio 2021

Dopo tanto cedimento allo spirito del tempo perfino nel celebrare la santa memoria del Natale del Signore, siamo ormai nella necessità di recuperarne il senso del mistero, ossia di riconsiderarlo con serietà. Il Natale è festa della tenerezza nel senso che è evento centrale nella storia di misericordia che il Dio trinitario ha ideato e attivato per la comunità degli uomini. Questa festa cristiana non ha, perciò, nulla da spartire con la sua dolcificazione e l’edulcorazione che ne ha operato la società consumistica, la quale di tutto abbonda, meno che di delicatezza e di profondità spirituale; tutto sembra possedere meno la capacità di vibrare in presenza del mistero.

Il carattere “drammatico” del Natale


Le feste cristiane hanno senso solo nella prospettiva credente. Fuori dell’orizzonte di fede, esse iniziano a significare cose diverse: potremmo dire che si deteriorano nello spirito e nella loro identità più vera. Riflettiamo. Quello di Natale è uno dei racconti evangelici più drammatici e duri, accostabile alla fenomenologia della passione e della morte del Cristo:

— la Vergine di Nazaret fu raggiunta, già prima di generare Gesù, dall’assicurazione angelica: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio» (Lc 2, 30);

— la venuta del Figlio di Dio viene preannunciata con la severità di un uomo penitente, la cui voce grida nella desolazione del «deserto» (Mc 1, 3);

— i pastori «furono presi da grande spavento» e dovettero anch’essi ricevere la parola di conforto dal cielo: «Non temete» (Lc 2, 9-10);

— alla notizia della nascita di Gesù, «il re Erode si turbò e con lui tutta Gerusalemme» (Mt 2, 3);

— il Figlio di Dio — commenta Giovanni — entra nella storia degli uomini «incompreso» e «non accolto» dai suoi, come «luce» rifiutata dalle «tenebre» (cfr. Gv 1, 10-11). Desta, perciò, non poca meraviglia il fatto che questo evento cristiano, che sa già di evento martiriale, abbia assunto nel tempo un carattere in contrasto stridente con ciò che esso è secondo i Vangeli. Anche il Natale resta segnato dal graffio implacabile col quale la cultura dell’effimero riesce a sfregiare i luoghi della geografia dell’anima e a profanare le sante date dello spirito. La lettura dei “Vangeli dell’infanzia” chiede con forza a noi cristiani di recuperare attenzione verso i segni “drammatici” dell’evento natalizio.

Il carattere radicale del Natale


È una constatazione incontrovertibile: spesso, nella società di oggi, rispetto ai grandi eventi cristiani si mostra perfino disponibilità ad accogliere il loro messaggio, ma questo viene quasi sempre inteso più come un ideale di saggezza che di salvezza religiosa, più come nutrimento e potenziamento del capitale umano che come un richiamo di redenzione. Oggi si rischia l’indebolirsi del carattere radicale del cristianesimo: la sua profezia pare talora farsi ideologia; la sua alterità trascendente sembra soffocare nella durezza della condizione umana; la sua profondità di senso e la sua tensione al futuro ultimo corre il pericolo di accorciarsi nelle brevi traiettorie del futuro solo storico.

Il cristianesimo ha esaurito la sua funzione storica? si chiedeva in uno scritto del 1941 don Primo Mazzolari. È forse la preoccupazione che il cristianesimo possa perdere questa funzione che porta ad operare quell’«inginocchiamento dinanzi al mondo» di cui parlava Jacques Maritain (cfr. Il contadino della Garonna, Morcelliana, Brescia 1980), osservando l’aspra temperie secolarizzatrice esplosa dopo la chiusura del concilio Vaticano ii e, poi, la deriva debole e dolciastra che si è data verso la new age, pericolosa stagione che non accenna a chiudersi, anche se la disgrazia inattesa della pandemia forse porta a considerare con più serietà l’esposizione della famiglia umana verso soglie di pensiero e di comportamenti più serie e più responsabili.

La risposta alla domanda mazzolariana se il cristianesimo conservi ancora la sua forza profetica, certamente ancora intonsa: il cristianesimo non ha esaurito e non esaurirà la sua funzione nel tempo dell’uomo se resta radicale ed esigente, esplicito e completo, fedele all’uomo e aperto al Mistero. Il Natale, portando in sé il segno della pienezza misterica che lo porta ad essere profezia del mistero pasquale nei due fuochi di sofferenza e di gloria, esige e richiama questo carattere di “radicalità” ineliminabile. Simbolicamente la iconografia cristiana, mostrando talora il Bambino Gesù appoggiato a una piccola Croce o, addirittura, sdraiato su di essa, esprime, in forma chiara drammatica, le due polarità della salvezza.

Natale, festa della gioia


Festa severa, il Natale non è affatto festa triste, ma gioiosa. Piuttosto, il Natale va sottratto alla presa catturante del consumismo, che di questa solennità approfitta e che tende di travolgere facendola precipitare nel grande vortice del mercato e dell’effimero. Per i cristiani il Natale è anzitutto umiltà, silenzio, stupore, gioia dello spirito. La severità del Natale è di fatto richiamata da Papa Bergoglio che chiede di vivere questo mistero cristiano in vicinanza alle pene dei poveri e dei sofferenti.

Maria, la Madre della Natività, ci esorta anch’essa all’umiltà, perché Dio possa trovare spazio nel nostro cuore, non oscurato né occupato dall’orgoglio e dalla superbia. Ella ci indica il valore del silenzio, che sa ascoltare il canto degli Angeli e il vagito del Bimbo, non soffocandoli nel chiasso stordente e nella confusione dissipante. Ella ci chiama a sostare dinanzi al presepio, assaporando la gioia semplice e pura che quel Bambino reca all’umanità. Nella Notte Santa, l’Astro sorgente, «splendore della luce eterna, sole di giustizia» (cfr. Antifona al Magnificat, 21 dicembre), verrà a illuminare chi giace nelle tenebre e nell’ombra della morte.

Natale ha bisogno di silenzio per essere riconosciuto in sé e nella vita dell’altro, come s’esprime madre Teresa di Calcutta: «è Natale ogni volta che rimani in silenzio per ascoltare l’altro». E possiamo continuare dicendo che è Natale quando c’è lo spazio per l’invocazione, quando c’è lo spazio perché il Figlio nasca in noi. Questa gioia è completa soltanto quando questa realizzazione armonica della nostra vita è attuata nell’apertura a Dio, grembo santo dal quale la nostra esistenza è fiorita. «Quando mi sfiorano le tue mani immortali, il mio piccolo cuore si smarrisce dalla gioia e ne sgorgano parole ineffabili», afferma il saggio poeta indiano, Rabindranath Tagore.

Così concepita, la gioia autentica ci viene solo come dono. Essa è la partecipazione alla gioia di Cristo: «Ma ora vengo a te Padre, e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano in sé stessi la pienezza della mia gioia», pregò Gesù prima di lasciare questo mondo (cfr. Gv 17, 13). «Afflitti», i discepoli sono «sempre lieti» (2 Cor 6, 10). San Paolo sovrabbonda di gioia nelle sue tribolazioni (cfr. 2 Cor 7, 4). La comunità cristiana vive in una letizia semplice (cfr. At 2, 46) e la predicazione della buona novella è dovunque fonte di grande gioia (cfr. At 8, 8). Anzi, siccome Dio non può essere trovato se non nell’uscire da sé stessi e nel darsi all’altro, l’altruismo è l’unica via alla gioia autentica, che la logica del Natale ci insegna.

di Michele Giulio Masciarelli