La Comunità di Sant’Egidio nel piazzale della stazione Tuscolana

A cena
da «quelli della stazione»

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02 gennaio 2021

Un capodanno diverso per tutti, quello del 2021. Niente cenoni, niente veglioni, niente brindisi e balli in piazza. In solitudine nelle nostre case, questo inizio d’anno lo ricorderemo a lungo, con un po’ di tristezza. Per gli abitanti della strada, invece, è stato lo stesso capodanno di sempre, da lasciar scorrere e dimenticare come gli altri capodanni, come tutti gli altri giorni.

In questa Roma deserta, di struggente bellezza, sono loro gli unici a circolare, per ricevere un pasto caldo e una coperta. È una sera fredda di luna piena, quella del 31 dicembre, e la Comunità di Sant’Egidio sta allestendo lo stand per la distribuzione del cibo nel piazzale della stazione Tuscolana. Nello stesso momento, altri venti stand della comunità, in altrettante zone di Roma, si stanno preparando per accogliere una popolazione dolente, in cerca di un sostegno e di un sorriso. Insieme all’associazione Baobab, sono forse gli unici presenti in questo giorno speciale, colorato di rosso e, perciò, con poca possibilità di movimento.

Marco Sala, volontario di Sant’Egidio dal 1979, quando era ancora uno studente di liceo, arriva intorno alle 18.30, con un carico di sacchetti pieni di cibo appetitoso: lasagne, polpette, lenticchie, mandarini, panettoncino e bevande. «La cena del 24 e del 31 è più ricca delle altre anche se lo sforzo è quello di portare sempre cose buone e, il più possibile, personalizzate» spiega Marco, che ogni martedì, da vent’anni, viene in questa stazione. Tuscolana è stata infatti “aperta” nel 2000, per allargare il campo d’azione. Le postazioni di Termini, Ostiense, Tiburtina e centro storico erano già attive da tempo.

Insieme a Sant’Egidio ci sono i volontari dell’associazione Il Granello di Senape, che gestiscono l’attività il venerdì. «Ma noi non facciamo distinzione fra le associazioni. Ci chiamano quelli della stazione», dice Roberto, per il quale «oggi è il giorno più bello dell’anno. Nel periodo della chiusura, quando non erano consentiti gli spostamenti, eravamo in tre. Le persone più fragili hanno sofferto».

In questo lavoro «non ci si può fermare», interviene Marco Catino, presidente dell’associazione, che ha come obiettivo quello di collaborare con gli  ultimi tra gli ultimi, per favorire la loro crescita sociale all’interno della propria cultura e delle proprie tradizioni.  «Servono costanza e impegno. La sera del 24 dicembre, una famiglia rom mi ha portato un’insalata russa cucinata appositamente per me. Mi sono commosso. Il rapporto all’inizio non è stato facile. C’era una chiusura totale. Poi, hanno cominciato a fidarsi e, finalmente, hanno deciso di mandare i bambini a scuola. Siamo arrivati a una relazione vera, sincera e alla pari». È un lavoro «silenzioso che dà i suoi frutti», commenta Roberto.

Ogni mese, Sant’Egidio distribuisce 50 tonnellate di cibo nella città, soprattutto nelle periferie. Prima della malattia pandemica, oltre alla mensa di via Dandolo aveva 3 centri di distribuzione, oggi sono 28. Alla stazione Tuscolana, ogni volta arrivano fra le 50 e le 70 persone.

La prima è sempre Maria, 94 anni. Accompagnata dal figlio Orlando, 60 anni, è allegra e sorridente sulla sua carrozzina, in cui è costretta da vent’anni. Maria e Orlando vivono in una casa sulla Tuscolana e per venire qui prendono il treno. Una congregazione pentecostale di cui fa parte la aiuta, ogni giorno, a scendere le scale sollevandola di peso, perché non c’è l’ascensore. «A me vogliono tutti bene» dice Maria, avvolta in un’ampia pelliccia e con un cappello in testa, da sotto il quale spuntano gli occhi chiari e vispi. Una vita attiva la sua, nonostante l’età e le condizioni precarie. Ogni sera, alle 20, va in chiesa a pregare e il martedì e il venerdì viene qui per la cena. A Natale, dopo la messa, ha avuto il suo pranzo cucinato da filippini. Ma non le è piaciuto molto, «meglio le lasagne» dice ridendo.

Racconta che il marito l’ha abbandonata per un’altra donna quando Orlando aveva 5 anni. Per poter tirare avanti è stata costretta a mettere il bambino in un collegio e a vivere stabilmente nelle case in cui lavorava come colf e babysitter. Questo le ha consentito di mettere da parte i suoi guadagni e di comprare una casetta. Orlando è tornato a vivere con lei all’età di 16 anni, segnato dai lunghi anni di lontananza. Ora è lui, che ha una piccola pensione d’invalidità, a occuparsi in tutto e per tutto della sua mamma. «Il Signore me l’ha lasciato apposta» dice Maria, e il viso le si illumina.

Orlando, un giubbino leggero sulle spalle curve, sottolinea con brevi commenti e suoni il racconto della madre, da cui non si allontana mai. Gli offrono un giaccone pesante ma lui rifiuta, mite. «Grazie, non ho freddo» ripete. Ha gli occhi buoni di chi ha sofferto molto. Maria, da cui traspare un’antica bellezza, a un certo punto si intristisce. È colta dall’improvviso timore che la vogliano mettere in una casa di riposo. Lei non vuole, «il Signore mi ha lasciato una mente buona. Non mi fa mancare niente» dice, mentre si asciuga le lacrime con le mani lunghe e affusolate. Ma è il momento della consegna del cibo e non c’è tempo per la tristezza. La chiamano a gran voce. «Mi vogliono tutti bene» ripete, confortata dall’affetto dei presenti.

Tra i volontari, una ventina, c’è anche Antonino, piccolo e rotondo e con lo sguardo serio. Siciliano, 64 anni, ha lasciato moglie e figli quando ne aveva 32. «Le cose non andavano bene» dice in estrema sintesi. È salito su un treno e ha cominciato la sua vita errabonda. Prima Messina, poi Napoli, quindi Roma. Lavoretti improvvisati e notti sulla strada. Un martedì sera, alla stazione Tuscolana, dove ha dormito fino al 2004, ha incontrato i volontari e la sua vita è cambiata. Ha cominciato a collaborare nella preparazione e nel carico dei pacchi di cibo e ogni volta che ce n’era bisogno. Mangiava regolarmente alla mensa ma le notti dormiva sotto i portici di San Giovanni. Poi, la svolta, una roulotte messa a disposizione dalla comunità. Per sette anni ha potuto contare su un riparo e sui servizi essenziali. «Mi piace essere pulito ed elegante». E pulito ed elegante era anche quel giorno in cui, alla mensa di via Dandolo, è venuto Papa Benedetto xvi . Era il 27 dicembre del 2009, un giorno che non dimenticherà mai. «Ero tutto incravattato e ho mangiato vicino al Papa. Gli ho raccontato di quello che la comunità aveva fatto per me e che, ora, era il mio turno di ricambiare».

Un giorno, però, la sua roulotte, come tutte le altre, per decisione del comune, è stata costretta a traslocare dalla città e Antonino è finito a Civitavecchia. Lontano dal suo punto di riferimento in cui, però, tornava ogni volta che poteva, animato sempre da spirito di servizio. Poi, un giorno, da Sant’Egidio è arrivata «una notizia importante». Un alloggio in una casa vera, due camere con bagno, dove, da quattro anni, vive insieme a un’altra persona. Antonino si sostiene con una piccola pensione e continua a collaborare con la comunità. Durante questi anni ha mantenuto il rapporto con i figli, due maschi e due femmine, che sente regolarmente. Quando la nipote più grande è diventata maggiorenne, nel 2018, è tornato al suo paese e sono andati tutti insieme al ristorante a festeggiare.

È il momento del brindisi. Il consueto conto alla rovescia e un bicchiere di spumante rallegrano il corpo e lo spirito. Ognuno, silenziosamente, esprime i suoi desideri personali per il nuovo anno, come ogni anno. Ma questa volta c’è una speranza comune, quella che, con l’anno vecchio, se ne vada anche il virus che ha reso ancora più incerte le loro esistenze.

Ben Jalel, detto Kafou, per la sua somiglianza con il calciatore ivoriano, arriva tardi. Gli offrono comunque il sacchetto del cibo ma lui rifiuta. Ha già mangiato. Ben Jalel, che significa “figlio di pace”, come tiene a sottolineare, è un po’ brillo e ha voglia di parlare. Tunisino di Cartagine, ha quasi 60 anni e da 40 vive in Italia, con una parentesi di sei anni in Francia, a Parigi. Ha sempre lavorato onestamente, «non ho mai rubato, mai spacciato» afferma orgoglioso, ma, da un po’ di tempo, le cose non vanno bene. Ha avuto un incidente sul lavoro e, non potendo più pagare l’affitto, ha dovuto lasciare la casa in cui viveva. «Ho avuto una disgrazia dietro l’altra. Mi hanno rubato tutto. Ora sono senza documenti e non posso ritirare neanche la pensione. Mi arrangio come posso. Dormo al parco, vado alla mensa della Caritas, a Sant’Egidio, dalle suore», così da quattro anni, segnati anche dalla perdita di una figlia. «Ma sono sempre elegante e pulito anche se vivo per strada. Sono buono, mi conoscono tutti. Sono fatto così, è la mia natura», dice con un sorriso mesto.

«È un periodo. Speriamo che finisca. Dio mi ha sempre aperto una finestra». È tardi. Sono andati tutti via. Fa sempre più freddo e si sta alzando la nebbia. Ben Jalel si avvia senza fretta alla ricerca di un riparo, in attesa che passi la nottata.

di Marina Piccone