La luce in fondo al tunnel sorge anche dall’assumere ciascuno il proprio compito

Un’occasione preziosa
per tornare a dire «io»

varobj3525536obj2035841.jpg
30 dicembre 2020

Qualcosa di profondo negli ultimi mesi è cambiato. Andiamo incontro al nuovo anno più consapevoli di quanto ci leghi un comune destino. Investiti da tragedie planetarie, sono molti a riconoscere, o almeno a invocare, la fine dell’autoreferenzialità e l’inizio di un tempo del “noi”. Conviene non gioirne troppo presto: perché si tratti di fraternità, l’essere insieme domanda una silenziosa rivoluzione nell’io. È a questo livello che il cristianesimo non può abbandonare il campo, in una partita che si gioca nel cuore dell’Occidente e che investe il soggetto. Si tratta di non abdicare e piuttosto di andare al fondo della modernità, delle sue istanze più radicali. Avendone rilevati i limiti, non ne va disinnescata l’originalità. Esiste infatti un noi, un prevalere del collettivo, capace di azzerare non solo la libertà, ma anche la giustizia. «Fratelli tutti» è un’espressione di cui va colto il carattere escatologico e paradossale, se vogliamo che il suo contenuto divenga progressivamente realtà. Solo una conversione può infatti modificare il nostro sentire.

Ci sono dei segnali da cogliere in tempo. Sono numeri, dati. «L’anno della paura nera» come il Censis ha definito il 2020, porterà con sé conseguenze gravi e di lungo periodo: di esse impressiona quella che il 54° Rapporto antepone a tutte le altre, «la propensione a rinunciare volontariamente alla solitamente apprezzatissima sovranità personale: il 57,8 per cento degli italiani è disposto a rinunciare alle libertà personali in nome e a tutela della salute collettiva, lasciando al governo le decisioni su quando e come uscire di casa, su cosa è autorizzato e su cosa non lo è, sulle persone che si possono incontrare, sulle limitazioni della mobilità personale; il 38,5 per cento è pronto a rinunciare ai propri diritti civili per un maggiore benessere economico, introducendo limiti al diritto di sciopero, alla libertà di opinione, di organizzarsi, di iscriversi a sindacati e associazioni. La paura pervasiva dell’ignoto, osserva ancora il Censis, porta alla dicotomia ultimativa «meglio sudditi che morti». E porta a vite non sovrane, «volontariamente sottomesse al buon Levitano». Si tratta di un’analisi drammatica.

Nella popolazione tra i 18 e i 34 anni le due percentuali salgono rispettivamente al 64,7 e 44,6 per cento. L’Istituto di ricerca evidenzia il nesso tra questo tracollo dell’io e la crescita di un livore collettivo, descritto come una logica “o salute o forca”: richiesta di pene severissime per chi non rispetti le misure di contenimento o abbia mal gestito l’emergenza, del carcere per chi violi la quarantena, di negazione delle cure per gli anziani e per chi non si sia adeguatamente protetto; boom di simpatie per la reintroduzione della pena di morte. «C’è un rimosso in cui pulsano risentimenti antichi e recentissimi di diversa origine, intensità, cause»: così si presenta il collettivo cui urge guardare, per chiederci chi siamo e chi saremo. In che senso e in che modo dire “noi”?

Siamo a un tornante cruciale non solo dello Stato di diritto, ma della stessa missione ecclesiale: l’uno e l’altra sorgono dalla fine della paura, da un soggetto sorpreso dalla coscienza della propria dignità. Luce invece di tenebre. Mai come in quest’ora, esposti a un futuro spogliato di qualsiasi promessa, occorre riconoscere nei Lumi, cioè nella speranza, un punto di non ritorno. E parlare a un io divenuto troppo fragile, stimando coscienza e libertà come il Santo dei Santi, più di quanto non si sia fatto sin qui. L’individualismo — facile bersaglio — è solo una defigurazione: indebolimento, tradimento di quel compito che ciascuno è per sé stesso. Non conviene invocare un’epoca del noi, prima di aver colto che il fondamento della fraternità è una coscienza filiale, libera, singolare, grata, sovrana. Certamente l’Illuminismo ne ha colto l’importanza in modo parziale e astratto. E tuttavia non c’è vangelo se non a rivelare che Dio è lì dove ciascuno può esser presente a sé stesso. La maturità dei singoli fa tremare le istituzioni, mette in forse il potere, rompe la ripetizione, genera forme nuove di legame: può tuttavia sorgere diversamente una vita insieme realmente umana e inclusiva, che abbia il sapore della fraternità? Già nel 2013, la filosofa Roberta De Monticelli rilevava: «La nostra questione diventa quella dei nessi fra rinnovamento civile di una società e rinnovamento morale di ciascuno, fra la speranza civile e la speranza che ci tiene in vita come persone, o che ci manca, invece, e ci fa mancare di vita. Abbiamo bisogno di sentire che le nostre vite, e soprattutto quelle dei nostri figli, valgano la pena che costano, cioè abbiano senso».

Dopo il 2020, va presa di petto la rassegnazione che ci incupisce e percepito il rilievo collettivo della speranza. La consistenza dell’io, la sua resilienza, la lucidità della coscienza appaiono ormai questioni di valore politico, la cui sacralità non giustifica più una marginalizzazione del soggettivo nel campo delle opinioni. Prospettive forti di prima persona sono indispensabili a vincere il grigiore in cui il mondo si appiattisce e appare privo di valore: tutto annoia o disgusta, «sono tutti uguali», in-differenti. La comunione dei santi, nella fede cristiana, è la forma di un collettivo in cui il noi ha scongiurato quella banalità che — il secolo passato ce lo insegna — non genera altra banalità, ma il male più cieco. Il segreto della comunione dei santi sta nell’intreccio tra l’unicità compiuta di ciascuno, l’irripetibilità di ogni momento, il carattere escatologico del suo realizzarsi. È veramente un altro mondo che già agisce sul nostro, uno squarcio che dissolve la ciclicità del tempo, quanto ogni ingenua idea di progresso. Esposti all’incertezza — dopo un anno in cui non si è parlato che di malattia, di pericolo, di morti — la speranza collettiva sorge là dove dai numeri si passi ai volti e sia confessata l’insostituibilità di ciascuno. Il suo opposto, la disperazione, può assumere persino la forma liturgica con cui la distribuzione delle prime dosi di vaccino è stata celebrata nei giorni scorsi sui media: tonalità estranee a ogni ragionevole idea di scienza e di cura. Ci prende spesso, davanti allo schermo, la sensazione di un vuoto, quasi mancassero le cose di cui parlare, la capacità di vederle, di apprezzarle, di interrogarsi. Tutto allora diviene enfatico, ripetuto, gridato. Non c’è complessità, non c’è chiamata in causa, nulla da interpretare. La luce in fondo al tunnel è fatta sì di ricerca, di successi medici e talvolta persino politici, ma sorge essenzialmente dall’assunzione ciascuno del proprio compito. Questo deve dirci la morte: che la vita è nostra, è adesso, è chiamata. Occorre esserci, non abdicare, avvertire — mentre si è nel guado — di dovere a tutti la propria parola, la propria presenza. Il contrario è assistere dal proprio divano all’ineluttabile, invocando il Levitano, quel noi impersonale che solleva dal risponder di sé. La morte — se non rimossa — espone a un’esperienza inaggirabile di solitudine e introduce un ordine di valori e criteri di giudizio che costituiscono il più dinamico appello. La gravità di quell’ora — da guardare negli occhi — risveglia e motiva, non paralizza come il non senso, l’impotenza, lo star male. Chi farà circolare questa buona notizia, da tutti comprensibile? «Il tempo del sentire è tempo di crescita» ha scritto ancora De Monticelli. Ma ogni crescita è lenta. Una persona cresce in quanto cresce la sua consapevolezza. Il sentire non è legato all’azione né allo scopo, ma per questo chiede sosta, riempie il tempo vissuto e tipicamente acquieta, ci fa silenti. In questo sostare, in questa quiete, senza che ci sia volontaria introspezione, cresce anche il senso di sé, di ciò che più conta, di ciò che ci definisce. Cresce o entra in crisi, che è un altro modo in cui si matura. Per questo Agostino scrisse quella frase tanto nota e tanto fraintesa: In te ipsum rede – in interiore homine habitat veritas. Da chi è erede di una simile tradizione e testimone della sua fecondità, può venire nel nuovo anno un contributo essenziale, che superi i confini confessionali e investa la qualità della vita, approfondendo la nozione di salute, cioè di salvezza. Nulla è infatti disumano e impersonale come il balletto dei numeri, la conta dei morti, la statistica dei contagi che il 2020 ci ha tentato di considerare normalità. Fraterno è un mondo in cui io esista e — quando non sarò più — non sia anonimamente passato.

di Sergio Massironi