Hic sunt leones

Natale, tempo di grazia
per contrastare
la “globalizzazione dell’indifferenza” in Africa

A volunteer with the grassroots charity Hunger Has No Religion dressed as Santa Claus (L) dances ...
30 dicembre 2020

In questo tempo natalizio, segnato dalla malefica pandemia del covid-19, è doveroso rivolgere il nostro pensiero al grande continente africano. In effetti, le privazioni imposte dall’emergenza sanitaria nei Paesi industrializzati non sono paragonabili alle sofferenze di tanta umanità dolente vittima sacrificale della «globalizzazione dell’indifferenza». E se da una parte è vero che è possibile contrastarla nella fede riconoscendo la presenza di Gesù Cristo in questo tempo di crisi perché egli è «L’Emmanuele», il «Dio con noi», dall’altra siamo chiamati ad una decisa assunzione di responsabilità.

Com’è noto, la «globalizzazione dell’indifferenza» è un fenomeno trasversale alla società contemporanea, stigmatizzato in più circostanze da Papa Francesco, in particolare nella sua recente Enciclica Fratelli tutti. Essa acuisce le diseguaglianze, affermando il primato del mercato sulla persona umana creata ad immagine e somiglianza di Dio. Ecco che allora l’ideologia perversa della massimizzazione dei profitti, cioè del liberalismo economico più sfrenato, non solo genera una costante divaricazione tra la condizione di benessere di un manipolo di nababbi e le masse impoverite, ma condiziona fortemente la «Casa Comune», acuendo a dismisura le sofferenze di coloro che vivono nelle periferie geografiche ed esistenziali del nostro tempo.

Lo sanno bene, in particolare, le popolazioni dell’Africa sub-sahariana sottoposte costantemente agli effetti devastanti dei cambiamenti climatici: dalle inondazioni, ai lunghi periodi di siccità, dalle penose carestie a tante altre indicibili privazioni. Il filosofo Umberto Galimberti, da acuto osservatore del pensiero umano, rileva che «già Martin Heidegger in Essere e Tempo dice che quando vediamo un bosco pensiamo al legname, quando vediamo un fiume pensiamo all’energia elettrica e quando vediamo il suolo pensiamo al sottosuolo. È cambiata la percezione della natura che non è più pensata come abitazione dell’uomo», col risultato che abbiamo compromesso penosamente il rapporto con il creato. E a farne le spese siamo tutti nel perimetro del cosiddetto «villaggio globale», con la sola differenza che molte delle popolazioni africane non hanno mai liberamente deliberato questo indirizzo culturale che, alla prova dei fatti, risponde alla logica dello «scarto» denunciata ripetutamente da Papa Francesco.

Cosa dire poi della condizione di belligeranza che coinvolge quei Paesi dove imperversa lo jihadismo, l’intolleranza e lo sfruttamento. Per non parlare della mobilità umana dalla sponda africana verso l’Europa che preoccupa non poco le classi dirigenti del Vecchio Continente. Da questo punto di vista, le festività natalizie potrebbero essere l’occasione giusta per riflettere ed operare un sano discernimento. Ad esempio, quanto pesa la miseria di quei popoli, quasi mai mediatizzati, ai quali sono stati imposti oneri a non finire affinché l’azione predatoria nei confronti delle loro risorse passasse indisturbata? Poco importa che l’oggetto del contenzioso siano minerali pregiati o fonti energetiche: la verità scomoda, che alcuni vorrebbero ignorare, è che il mondo avanzato — quello «dell’usa e getta», dove per forza occorre essere consumatori — ha ricevuto dalle periferie africane molto più di quanto non abbia restituito.

Come se non bastasse, il 2020 verrà ricordato per essere stato non solo annus horribilis del coronavirus, ma anche della prima recessione, da 25 anni a questa parte, dell’economia africana. Infatti, l’effetto collaterale più insidioso della pandemia (che grazie al Cielo, almeno per ora, è risultata più contenuta in confronto ad altri continenti) è stata la crisi economica legata alla chiusura delle frontiere, al crollo delle esportazioni, all’implosione del turismo e al declassamento, da parte delle agenzie di rating, delle migliori economie del continente.

A questo proposito, Papa Bergoglio fin dai primi anni del suo pontificato, ha ricordato al consesso delle nazioni che è necessario affermare una «nuova mentalità politica ed economica» ( Eg 205), contraria ad una «mentalità individualista, indifferente ed egoista» ( Eg 208). In particolare, lo scorso novembre, al termine della tre giorni virtuale di Assisi su un nuovo modello economico sostenibile, ha espresso un severo giudizio sull’economia mondiale, affermando che «non possiamo andare avanti in questo modo». Rivolgendosi a duemila giovani imprenditori ed economisti online da 120 Paesi, Papa Francesco è stato esplicito e diretto: «Questo enorme e improrogabile compito — ha spiegato — richiede un impegno generoso nell’ambito culturale, nella formazione accademica e nella ricerca scientifica, senza perdersi in mode intellettuali o pose ideologiche — che sono isole —, che ci isolino dalla vita e dalla sofferenza concreta della gente».

Siamo di fronte, quindi, a quella che l’economista Leonardo Becchetti ha definito «Bergoglionomics», la rivoluzione sobria di un sistema economico esattamente agli antipodi del liberismo economico, quello che ha generato danni immensi un po’ a tutte le latitudini ma particolarmente in Africa, acuendo a dismisura la forbice delle diseguaglianze e peraltro legittimando istanze sovraniste di chi, ad esempio nella Vecchia Europa, ritiene di avere un surplus di diritti rispetto ad ogni genere di alterità.

Sorge allora spontanea una domanda: rispetto a questi temi, quale tipo di formazione cristiana è stata impartita nelle nostre comunità, quelle del cosiddetto Primo Mondo? Com’è possibile che vi sia oggi una così diffusa ed endemica «crassa ignorantia» da parte di molti fedeli rispetto a quelli che sono i contenuti profetici del Vangelo? Sarebbe pertanto auspicabile che la Dottrina Sociale della Chiesa nel suo complesso, a partire dalla Laudato si’ e dalla Fratelli tutti, entrasse a pieno titolo nella pastorale ordinaria delle nostre chiese. Sono vuoti da riempire che esigono il dono della conversione, una spiritualità più intensa, un sapere più alto, una capacità di riflettere più vigoroso, un’intelligenza morale che ponga un freno al selvaggio e prorompente interesse di parte.

Sovviene, quasi istintivamente, una citazione del compianto statista senegalese Léopold Sédar Senghor: «La vera cultura è mettere radici e sradicarsi. Mettere radici nel più profondo della terra natia. Nella sua eredità spirituale. Ma è anche sradicarsi e cioè aprirsi alla pioggia e al sole, ai fecondi rapporti delle civiltà straniere». Una comunione d’intenti che vale per tutti i popoli della Terra e che se vissuta renderebbe davvero intelligibile, a credenti e non credenti, il mistero dell’incarnazione. Un augurio che non può essere disatteso. Soprattutto a Natale!

di Giulio Albanese