«L’assemblea degli animali» di Filelfo

Una nuovissima favola antica

Particolare da una tavola di Riccardo Mannelli per il libro edito da Einaudi
28 dicembre 2020

Una profonda sensazione di ritorno spira dalla “favola selvaggia”, così il sottotitolo, di L’assemblea degli animali (Torino, Einaudi, 2020, pagine 172 , euro 15) del misterioso Filelfo, nome che richiama antichi esseri prima della separazione dal grande tutto, ma anche l’umanesimo militante e tribolato di Francesco Filelfo, testa di ponte tra Oriente e Occidente latino, che rimanda in qualche modo alla grecità autoriale enunciata nelle note di copertina.

In un’opera non catalogabile se la si vede con lo sguardo dell’oggi, ma che, se si viaggia indietro nel tempo, proprio nei dialoghi quattrocenteschi e nei loro antecedenti favolistici trova una sua collocazione. A patto che si rifugga dalle rigide classificazioni scolastiche cui purtroppo ci hanno abituato le semplificazioni in correnti e in generi.

L’assemblea degli animali, illustrata da Riccardo Mannelli, che dona fisicità a un racconto a più voci che porterebbe verso il sogno e la metamorfosi, è una favola contemporanea, nella quale lo spillover tra animale e uomo non è dovuto al caso, ma, come hanno documentato gli studi di David Quammen, deriva dalla distruzione dell’ecosistema da parte dell’homo civilis e dalla brutale accumulazione di animali — destinati a pasti chic — in veri e propri castelli di gabbie, con la relativa mescolanza di deiezione e fango, che, unita alla visita notturna dei pipistrelli, ha causato la zoonosi alla base dell’attuale peste.

Ma se Quammen ha divulgato i dati medici e biologici attraverso la sua presenza nei luoghi da cui tutto è iniziato, Filelfo riprende storie più antiche, a partire dai miti.

Mito vuol dire, come si sa, racconto: ma di che cosa? Di favole e spiegazioni popolari — i popoli dell’età del bronzo e del ferro e ancora prima — di ciò che è avvenuto dopo?

A leggere questo strano coacervo di favola, racconti dell’Inizio, leggende, autori d’occidente come d’oriente, sembra il contrario. Sembra che il mito sia la realtà e la storia delle industrializzazioni un incubo dal quale ci si deve svegliare in fretta. Il mito parla, lo sapeva Hillman, tra l’altro qui giustamente presente, e lo sapeva prima ancora Jung, che negli ultimi anni si allontanò dalla cura psicoanalitica per fare i conti personali con le leggende e i riti tribali.

Gli animali che si riuniscono, un motivo frequentato dalla letteratura di ogni latitudine, sono portatori di una memoria collettiva che viene da un prima, e quel prima è il ricordo di un giardino narrato nei modi che sappiamo. Un giardino perduto per aver voluto dimenticare, dice l’autore. La dimenticanza è una dimensione ripresa anche in altri momenti della storia dell’uomo, basti pensare a Esiodo, a Platone o al primo romanticismo germanico, soprattutto Novalis e Hölderlin. È divenuta il peccato di Hybris, della separazione di chi si ritiene superiore, nato dal volersi distinguere dall’insieme armonico di divinità e natura del paradiso perduto, come avrebbe detto Milton e confermato Ezra Pound. Dal ritenersi ormai separati dalla stessa Anima del mondo. Con un’eco in chi non ti aspetteresti: il Nietzsche della Nascita della tragedia che vede nell’arte “la gioiosa speranza” che l’ordine dell’individuazione possa essere infranto per tornare ad una “ristabilita unità”.

La natura è stata dimenticata in un paradossale lungo cammino di riconquista di qualcosa che era già stato nostro, lo avrebbe scritto nel primo ventennio del Novecento Eliot. Di cui tornano qui non solo il divertissement del Libro dei gatti e degli Esercizi per le cinque dita (oltre che le citazioni più diffuse come quella di April is the Cruellest Month), ma anche l’abissale presenza delle sirene nella sua prima opera poetica, Prufrock e altre osservazioni, là dove il non riconoscere più sorelle le figlie del mare origina la dispersione nelle “voci umane” e la morte per acqua. E d’altronde la trasformazione, da Apuleio a Ovidio, da Swift a Collodi fino a Kafka può essere letta come riaggallare della memoria involontaria di un’unità perduta.

La duplice assemblea, prima degli animali, e poi quella tra animali e creature della trasformazione, come i cinocefali dalla testa di cane o i centauri dal corpo equino, per decidere come sanare le ferite che l’antropocene ha inferto alla Madre, è attraversata da lampi che portano lontano, un po’ troppo per parlarne esaurientemente qui: per restare al poeta della Waste Land, all’icona mariana, nella «Signora dei silenzi quieta e affranta» del Mercoledì delle ceneri, dove non a caso torna ricorrente il motivo del Giardino.

L’assemblea riesce non solo nell’impresa di far incontrare favola — senza concessioni ai buonismi posteriori — poesia, testi sacri, immagini mariane, grande madre pre-indoeuropea, ma anche in quella di attirare sul suo vascello quelli che erano creduti i relitti delle arti non nobili, come quando affiorano i riferimenti a De Andrè e a Branduardi, ai Beatles di Abbey Road, a Di Giacomo (e alla canzone napoletana), ma anche alla cosiddetta letteratura per ragazzi, come nel caso di Alice nel paese delle meraviglie, o ai riti di passaggio — e di sacrificio — trasformati in fiabe.

Il messaggio dell’Assemblea degli animali è quello del ritorno attraverso il risveglio, appoggiandosi anche sulle citazioni buddiste o zen, sulla riunificazione con i cinque animali del qigong, sui riferimenti ai culti femminili e al matriarcato rielaborati da Bachofen, ma anche con il ricorso alla inesausta volontà di Schopenhauer.

Questo racconto polifonico è la rivelazione di come la favola per ragazzi sia, se ben interpretata, una narrazione della sapienza archetipica che parla per figure in modo che lentamente si possano riconoscere i segni di una fratellanza perduta per il guadagno e il potere divenuti atti fini a se stessi e senza nessuna utilità, anzi.

Un messaggio che riesce a parlare ai bambini e ai grandi e a porre religiosamente la grande questione del legame tra la vita dell’uno con quella di tutti. E a coniugare la bellezza che profeticamente Dostoevskij aveva destinato alla salvezza del mondo antropico con il se del cambiamento e della trasformazione necessaria.

di Marco Testi