«Evangelii gaudium»

La messa a nudo dell’inequità

A homeless man (C) carries a bag while crossing a street at night in Tokyo's Shimbashi area on ...
22 dicembre 2020

In italiano come in altre lingue, la parola vangelo richiama immediatamente un testo scritto, da leggere o ascoltare durante una lettura. Ma la parola greca che intitolava in origine i racconti di Matteo, Luca, Marco e Giovanni rimandava a ciò che è stato annunciato a voce: una buona notizia di cui si era parlato e di cui bisognava continuare a parlare.

Anche il testo scritto dell’Evangelii gaudium continua a parlarne, e quasi nel senso più letterale del verbo. La prima Esortazione apostolica di Papa Francesco, infatti, è sì un corposo documento scritto in italiano, ma con una scrittura che in più momenti sembra conservare molto del caldo e lieto parlato di chi ridice e di nuovo spiega, da vicino, questa buona notizia ai fedeli.

Nel leggere l’Esortazione, i lettori avranno sentito l’estemporaneità di un discorso ogni volta che un’affermazione si dispiega in una breve serie di frasi o parole. Così accade quando si parla: se non si è contenti di una prima espressione, la si migliora subito con un’altra, sicché a questa prima espressione, che pure resta valida e si conserva, si aggiungono precisazioni, chiarimenti, moltiplicazioni in altre forme del suo significato. Sembrano infatti riverberi di prime espressioni, e non sempre accumulazioni retoricamente ponderate, le enumerazioni, diverse per tipo e quantità, che spesso occorrono nel dettato dell’Esortazione.

Ma è anche il lessico a modulare la voce del testo. Una voce che s’accende per la frequente, ancorché dimessa, espressività del vocabolario. Spicca, però, la scelta della variante inequità. A dispetto dell’etimologia e dell’odierna fonologia sia italiana sia spagnola, la pronuncia con la e sembra scelta al tempo stesso per spogliare il concetto del suo abito cólto e per mettere dunque a nudo tutta l’antonimia di questa «radice dei mali sociali» (p. 160) rispetto a ciò che invece è equo e giusto, in particolare per ciò che riguarda la ricchezza («no a un’economia dell’esclusione e della inequità», p. 45). Né sono consuete, quanto al lessico, alcune giunture tra nomi e aggettivi, espressive eppur sommesse: «il cuore comodo e avaro» (p. 3) o «tenerezza combattiva» (p. 70). E se, soffermandosi sulle omelie, Francesco ricorda l’efficacia del «parlare con immagini», ecco le immagini apparire di frequente nel suo discorso nella concentrazione di una parola metaforica. Sono della memoria biblica quelle della sete e della fonte/sorgente, richiamata da verbi quali scaturire o sgorgare, contrapposte alla visione del deserto. È questa una tensione che peraltro dal vocabolario di Francesco fa stillare il composto, tutto didascalico col suo trattino, di «persone-anfore», con il quale il Papa conforta i fedeli chiamati a vivere la loro fede in condizioni avverse. Ma non si va più in là quanto a onomaturgia. Il lessico collocato in modo espressivo, figurato o meno che sia, resta pur sempre rattenuto nella quotidianità, serve alla chiarezza del messaggio, nasconde l’oratore e favorisce l’orazione: per esempio, un evangelizzatore non dovrebbe avere una «faccia da funerale» (p. 10); la Chiesa lascia sempre aperte le porte perché non è «una dogana» (p. 40); è colpevole l’economia che fa dei poveri («“non cittadini”» o «“cittadini a metà”») «avanzi urbani» (p. 46); se il cristiano non incontra l’altro, l’edificio morale della Chiesa diventa un «castello di carte» (p. 74); l’accidia è «paralizzante» (p. 66), la mondanità «oscura» (p. 77) e «asfissiante» (p. 79); la preghiera è «un polmone» (p. 197); i teologi non praticheranno una teologia «da tavolino» (p. 107), mentre la tratta delle persone è un «crimine mafioso e aberrante» (p. 165). Talvolta non manca perfino una certa ironia, che riconosciamo nella paronomasia dell’espressione «carità à la carte» (p. 142), quella di chi cerca una comoda pietà.

di Daniele D’Aguanno