L’intuizione profetica di Emily Dickinson

La speranza
è una stanza fredda

AMHERST, MA - SEPTEMBER 4: A daguerrotype of Emily Dickinson at age 16, is displayed at the Emily ...
21 dicembre 2020

Pochi giorni fa mia figlia, 4 anni, se n’è uscita con questa domanda: «Mamma, perché gli alberi diventano nudi proprio in inverno? Non hanno freddo?». Come non averci pensato prima. Noi ci spogliamo d’estate, quando è caldo. Gli alberi perdono le foglie e sono nudi nel momento più freddo dell’anno. Di chiome che in primavera grandeggiano gonfie come mongolfiere non restano che rami lunghi e spogli, esposti alle intemperie. Effettivamente, è un bel paradosso a guardarlo con gli occhi dei bambini.

Forse un po’ influenzata da questo sguardo, mi sono lasciata andare a pensare che gli alberi nudi ci aiutano a camminare meglio nel tempo di attesa verso il Natale. Siamo abituati a cantare al freddo e al gelo ma lo sentiamo sulla nostra pelle? Stiamo camminando verso quel giorno in cui, in pieno inverno, Dio si spogliò, si fece bambino nudo.

Anche quell’anima straordinaria che è Emily Dickinson osò fare come gli alberi: «Il giorno in cui speravo, mi rammento / della stanza dov’ero – / una camera esposta a occidente / e l’aria cruda mi faceva bene».

La speranza è una stanza fredda. Noi non l’avremmo mai neppure immaginato, ma forse un bambino sì. Appena s’introduce la parola «speranza» in un discorso, tutto magicamente si allarga. Immaginiamo un panorama che si apre a perdita d’occhio, un sole che sorge, un oceano sereno su cui naviga una barca. Emily chiude tutto, spranga la speranza in una camera che è pure esposta a occidente.

Noi non incarniamo mai le esperienze più profonde, appena ce ne viene data la possibilità ci perdiamo nella deriva dell’astratto. Allora chiediamocelo. Sapremmo dire dove eravamo quando abbiamo sperato? Sapremmo ricordare gli odori, un dettaglio unico per fare il ritratto della nostra speranza? Scopriremmo forse che quando le parole s’incarnano sono capaci di mostrarci un senso che esplode.

La realtà tollera quel materiale incandescente che noi definiamo — riducendolo — come contraddizione: nel mondo dei nostri pensieri la felicità può stare solo tra sorrisi e colori vivaci, nel mondo delle presenze è ben più probabile che la felicità sia custodita in catapecchie da cui noi allontaniamo lo sguardo, schifati. O in recinti di trita normalità, forse la felicità è pure sugli scaffali dei supermercati.

Nel mondo delle presenze gli alberi sono nudi d’inverno e la speranza abita una camera con l’aria cruda. La contraddizione è un urto generativo in questo caso, dalla collisione si sprigiona un guadagno di umanità moltiplicata. E non è estremamente sincera Emily nel chiamare per nome chi siamo? Siamo una camera esposta a occidente, la vita è un piccolo spazio che ogni istante si avvicina di più al mistero della morte. E so bene che dirlo sembra brutto e pessimista, ma lo è in un tempo come il nostro, in cui il pensiero dominante è sostanzialmente disperato proprio perché non vuole fare i conti con la morte.

Trattarla come un argomento tabù ci ha resi deboli e impauriti. Il limite è corroborante, mette a fuoco ed esalta ciò che c’è. E noi siamo camere. Ci illudiamo di essere grattacieli, ma siamo piccole camere esposte a occidente. Un’anima coraggiosa ne deduce che tutto quello che si porge alla vista di chi guarda a occidente è moltiplicato di valore.

Solo chi è vulnerabile può sperare. Ecco cosa ci dicono gli alberi spogliandosi in inverno, ci invitano a incamminarci verso il Natale senza pellicce, cappotti e guanti. Ci invitano a entrare nella stanza insieme a Emily a sentire l’aria cruda che fa tremare, ed è proprio come essere Betlemme. Anche Dio, che era l’infinito, scelse una camera piccola — grotta o capanna che sia — e sentì l’aria pungente di un neonato che nasce nudo. Così vulnerabile e così eccedente di speranza.

di Annalisa Teggi