Il 21 dicembre di settant’anni fa moriva Trilussa

Poeta della cronaca

Gerrit van Honthorst «Incredulità di Tommaso» (1620)
19 dicembre 2020

Il 23 dicembre 1950 a Roma fa freddo e piove. L’inverno, arrivato da pochissimo, ha incominciato con gran lena a fare il suo mestiere. E non ha alcun riguardo per la folla assiepata su piazza della Chiesa Nuova. Del resto, anche tutte quelle persone non si curano di lui, visto che comunque se ne stanno là, sotto «l'ombrello de le rimambranze, / sotto una pioggia de malinconia». Aspettano che da Santa Maria in Vallicella esca il feretro di Trilussa, al secolo Carlo Alberto Salustri, il celebre poeta di Roma, nominato senatore a vita solo una ventina giorni prima («semo ricchi», aveva ironizzato con la fedele segretaria Rosa Tomei). Il funerale si è appena concluso. Lo vogliono salutare per l’ultima volta, come si fa con un grande amico. Se n’è andato il 21 dicembre, lo stesso giorno in cui, ottantasette anni prima, era morto il principe dei poeti romani, Giuseppe Gioachino Belli, inevitabile pietra di paragone per qualsiasi artista avesse provato a cimentarsi dopo di lui nella produzione di liriche in romanesco.

Pasolini, per esempio, si soffermò sul distacco dall’idioma del Belli e dal «senso del tragico» del popolo belliano consumatosi coi poeti di Roma che gli erano succeduti. Un allontanamento linguistico e antropologico inaugurato da Cesare Pascarella e portato a compimento proprio da Trilussa, che, con il suo «macheronico italo-romanesco» — un dialetto sempre più prossimo al parlato comune — diede voce all’«angoscia un po’ decadente» della piccola borghesia, dell’«impiegato che vive in un piccolo appartamento in Prati o a Piazza Vittorio», luoghi emblematici della “colonizzazione” piemontese della città dopo il 1870 e della conseguente e progressiva italianizzazione del vernacolo capitolino. «È certo comunque», ha osservato Pietro Bargellini, «che Trilussa superò felicemente il cimento col sonetto belliano… Alla Roma popolana sostituì quella borghese, alla satira storica, l’umorismo facile della cronaca. Poeta della cronaca». O, per dirla con Pietro Pancrazi, poeta “chansonnier”, «che divenne presto il più inventivo e felice favolista del suo tempo; e oltre che satirico, fu poeta lirico e idillico in limpidi quadretti ed epigrammi». E in fiabe affollate da orchi, maghi, nani, streghe e re.

Specialmente nelle favole e negli apologhi Trilussa lavora sempre come un «grande riduttore» — la definizione è ancora di Pancrazi — instancabilmente intento a raccontare il proprio tempo ridicolizzandone i fanatismi, depotenziandone le parole d’ordine, canzonandone gli astratti furori ideologici, riportandone ad altezza d’uomo i voli idealistici. O osservando i “big” della terra dal cielo di un volo poetico: «Da quel’artezza nun distingui mica / er pezzo grosso che se dà importanza: / puro un Sovrano, visto in lontananza, / diventa ciuco come una formica». Clericali, monarchici, massoni, socialisti, liberali, ma anche banchieri, commendatori, affaristi, preti, politici, diplomatici, sono, con tutto il loro armamentario retorico e le loro vanità, tra i protagonisti-vittime dei versi dissacratori con i quali il poeta romano, in un modo tutto suo, castigat subridendo mores, per parafrasare il famoso motto. Personaggi spesso mascherati da animali — non tutti nel novero delle favole classiche — di un umanissimo bestiario satirico popolato di “purcette anarchiche”, lumache vanagloriose, “vorpi antimilitariste”, cani moralisti, sorci ladruncoli, porci sentimentali, somari filosofi, gatti avvocati, ragni umanitari, vipere convertite, pappagalli “ermetici”. Soggetti nati da occasioni di cronaca che depongono i «loro connotati contingenti», rivelandosi come momenti «di un ritmo costante, uguale: la vita degli uomini», per citare di nuovo Bargellini. E in effetti, come notava don Giuseppe De Luca in un articolo su «L’Osservatore Romano» del 4 febbraio del 1940, non è un popolano, un borghese o un aristocratico che parla in Trilussa, ma, «propriamente, un uomo, senz’altri aggettivi, che parla degli uomini e ne parla agli uomini».

La vita degli uomini raccontata da Trilussa attraversa anche la tragedia, che esplode ad esempio negli amari e purtroppo sempre attuali versi della famosa Ninna nanna de la guerra, fosco epicedio scritto all’inizio del primo conflitto mondiale: «Ninna nanna, tu nun senti / li sospiri e li lamenti / de la gente che se scanna / per un matto che commanna; // che se scanna e che s'ammazza / a vantaggio de la razza… / o a vantaggio d’una fede / per un Dio che nun se vede, / ma che serve da riparo / ar Sovrano macellaro. // Ché quer covo d’assassini / che c'insanguina la terra / sa benone che la guerra / è un gran giro de quatrini / che prepara le risorse / pe li ladri de le Borse».

Ma c’è anche la sua, di vita, nelle venature oniriche, nostalgiche e crepuscolari di certi idilli, epigrammi e memorie in cui, comunque trattenuto da un’ultima delicata reticenza, lascia trasparire la profondità di sentimenti legati alla propria esperienza umana: «Perché ciavemo tutti in fonno ar core / la cantilena d’un ricordo antico / lasciato da una gioja o da un dolore. / Io, quella mia, me la risento spesso: / ve la potrei ridì... ma nu’ la dico. / Nun faccio er cantastorie de me stesso». Con la stessa malinconica delicatezza, Trilussa si muove nelle composizioni più intime e personali sulla fede cristiana, che per lui fu, secondo don Giuseppe De Luca, «un moto d’attrazione, una tentazione di amore, un principio di preghiera». Famose quelle costruite sulla metafora della cecità: i quattro sonetti dedicati a Er ceco, per il quale Gesù è il lontano ricordo della voce materna che da bambino gli indicava la presenza di un’immagine di Cristo all’angolo di una via: «E lui, ne li momenti de bisogno, / lo rivedeva, senza avello visto, / come una cosa che riluce in sogno...»; e gli endecasillabi della Guida, nei quali la fede, nelle sembianze di una vecchietta cieca, si offre di accompagnare il protagonista sperduto nel bosco: «Se ciai la forza de venimme appresso / de tanto in tanto te darò na voce, / fino là in fonno, dove c’è un cipresso, / fino là in cima, dove c’è una croce». Versi su cui tra l’altro si soffermò, recitandoli a memoria, anche Papa Luciani in un’udienza del mercoledì, evidenziando però, con una piccola correzione teologica, come la fede nasca dall’attrattiva del Signore e non dalla “forza” dell’uomo “di andargli appresso”: «Quando si tratta di fede, il grande regista è Dio, perché Gesù ha detto: nessuno viene a me se il Padre mio non lo attira».

Il giorno in cui il poeta di Roma morì, il 21 dicembre di settant’anni fa, secondo il calendario liturgico vigente prima della riforma conciliare si festeggiava san Tommaso, l’apostolo che, per credere, volle vedere e toccare le piaghe di Gesù. A Trilussa sarà sicuramente piaciuta questa provvidenziale ironia, una specie di felice contrappasso per lui che aveva cantato una fede senza occhi. Così come avrà sicuramente apprezzato il luogo in cui si celebrarono i suoi funerali: una chiesa che aveva conosciuto bene, nella quale secoli prima aveva vissuto san Filippo Neri, patrono di Roma. Pure Pippo bono aveva preso in giro la vanità di un sacco di gente del proprio tempo. Con quella cristiana allegria che è stata per tantissimi romani, come per il loro poeta, «un moto d’attrazione, una tentazione di amore, un principio di preghiera».

di Paolo Mattei


A Trilussa


Hai dato la parola all’animali,
un fricandò de grugni, artiji e becchi,
ommini e bestie come tanti specchi,
lupi e agnelli, tutti tali e quali,
l’eroe cor frescone, ‘na voce e un rajo,
la favola der monno in un serrajo.

All’ombra de quer solito pajaro
hai scritto la Lumaca e la Pantera,
la ninna nanna ninna de la guera,
che ne la mortadella c’è er Somaro,
che appresso all’Uno spesso c’è uno Zero,
si è pecorone er libbero pensiero.

Ciai fatto ride a canna e a denti stretti
co’ Re Chiodo, la Purce, l’Uguajanza,
l’onestà de nonna e la Madre panza…
Facce e pupazzi in millanta sonetti.
Ciai fatto girà Roma tutta in rima
E qui, Sor Mae’, tutto è come prima.

Alessandro De Carolis