Dopo l’incendio nel campo di Moria

I profughi dimenticati
di Lesbo

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18 dicembre 2020

Lesbo, dicembre 2020. Nella tendopoli, innalzata in fretta in un ex poligono militare a Kara Tepe, vivono circa 10 mila persone ammassate in un campo che ne potrebbe contenere massimo 4 mila. Ci sono due o anche tre famiglie in tende di pochi metri, senza elettricità e riscaldamento. Cumuli di immondizia sono dappertutto. Le donne e i bambini hanno ricevuto solo alcuni giorni fa pochi box in plastica per farsi la doccia ma manca l’acqua calda. Gli uomini e gli adolescenti, se vogliono lavarsi, devono farlo nelle acque gelide e salate dell’Egeo. Il cibo è distribuito una volta al giorno. Le tende sono leggere, piantate a pochi metri dal mare. Basta una pioggia prolungata per trovarsi fradici nei sacchi a pelo. La scorsa settimana è arrivata una tempesta, il mare si è ingrossato e ha inondato la tendopoli. In mezzo a fiumi d’acqua melmosa, la gente è riuscita a mettere in salvo i bambini e i pochi beni rimasti.

È questa, nelle descrizioni dei rapporti delle ong, la vita quotidiana nell’accampamento dove sono stati trasferiti da tre mesi — senza che in Europa se ne parlasse troppo — i rifugiati del più grande campo profughi della Ue, il campo di Moria, incendiato e raso al suolo da fiamme dolose nel settembre scorso, dopo mesi di proteste e scontri contro condizioni di vita giudicate inaccettabili. Si tratta di famiglie di richiedenti asilo, persone in fuga da anni, prima dalle guerre del Medio Oriente e poi dalla Turchia, per raggiungere, attraverso la Grecia, la possibilità di una vita migliore e più sicura in Europa. Nel 2015, quando arrivarono sul territorio ellenico centinaia di migliaia di fuggitivi dal mattatoio siriano, quote di profughi riuscirono ad ottenere il permesso di soggiorno in Germania e altre nazioni.

I piani di ricollocamento nei 27 Paesi europei sono stati però di fatto bloccati dal 2017 in parallelo all’accordo tra Ue e Turchia, in cui Ankara si è impegnata ad ospitare circa due milioni di sfollati di guerra, in cambio di ingenti aiuti europei. I rifugiati di Lesbo sono così rimasti intrappolati prima nel campo di Moria, ed ora nel campo di Kara Tepe, già ribattezzato “Moria 2”, e «un incubo peggiore di Moria 1» raccontano i volontari. «È il limbo della disperazione» dice in un report Astrid Castelein, responsabile dell’Agenzia dell’Onu per i rifugiati a Lesbo. Nei giorni dell’incendio di Moria, quando colonne di fumo si alzavano fino al cielo, in molti avevano sollecitato i Paesi europei a riaprire le porte ai richiedenti asilo, per porre fine a quello che lo stesso Consiglio d’Europa aveva definito «un affronto alla dignità umana». Viceversa la soluzione è stata — si legge nei rapporti dell’organizzazione umanitaria internazionale Oxfam — quella di segregare il grosso dei rifugiati di Moria nell’ex poligono militare di Kara Tepe, su un terreno arido, senza infrastrutture né fogne, in una posizione aperta alle mareggiate.

Il campo è circondato da poliziotti in tenuta anti-sommossa, per evitare qualsiasi ribellione. I visitatori non sono i benvenuti. L’assistenza medica è minima, assenti i contatti con strutture legali. I malati di covid (nella sola Lesbo 240 tra i rifugiati) sono stati isolati in un tendone circondato da una rete metallica. «Rischiamo la catastrofe, perché non c’è prevenzione» racconta un medico volontario che preferisce rimanere anonimo. L’inverno adesso mette paura. «È un problema» ammette Giorgios Koumoutsakos, ministro greco per l’immigrazione e per l’asilo. «Un nuovo centro deve essere costruito dalle fondamenta e si deve ancora individuare il luogo adatto. È impossibile pensare ad una struttura funzionale prima della prossima estate». Inoltre — aggiunge Koumoutsakos — «siamo sotto la costante minaccia politica della Turchia di aprire le frontiere». Nel campo temporaneo di Kara Tepe, c’è chi aspetta un permesso di soggiorno da tre anni. «Siamo trattati peggio delle bestie» dice un giovane afghano, in un video dell’agenzia europea Infomigrants. Ha perso una gamba in guerra quando era bambino. Mostra la protesi come un atto d’accusa. I politici e la pubblica opinione europea sono troppo lontani per accorgersi di lui.

di Elisa Pinna