INTERMEZZI BEETHOVENIANI
Quel concerto “monstre”

Una catastrofe di bellezza

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16 dicembre 2020

Quella sera del 22 dicembre del 1808 faceva molto freddo a Vienna e Beethoven incurante delle avversità meteorologiche aveva preparato un concerto “monstre”, che sarebbe diventato il più lungo della storia della musica di tradizione classica almeno fino ad allora. La Sinfonia pastorale, alcune arie liriche e brani della Messa in Do, il Quarto concerto per pianoforte e orchestra, la Quinta sinfonia e per concludere la Fantasia corale.

Per le sinfonie quella fu la prima esecuzione pubblica e la Pastorale come incipit contribuì a rinfrancare anime e corpi. Beethoven lo aveva espressamente indicato nella partitura, questa musica non è pittura ma evocazione di piacevoli sentimenti all’arrivo in campagna.

L’incanto del ruscello le danze sull’aia, il furioso temporale che per alcuni momenti ricorda la tempesta delle quattro stagioni di Vivaldi, e infine l’eco del temporale che si spegne, le nuvole fluttuano e come un tappeto che si arrotola abbandonano la volta celeste che torna a risplendere della serenità ritrovata. Un semplicissimo inevitabile intervallo di quarta giusta intonato dal corno riporta la pace. Scontato? Forse. Eppure incredibilmente perfetto. Perfino quello che necessariamente si aspetta sembra una sorpresa e un sollievo. Una catastrofe di bellezza e di quiete. Il finale di una favola. Non una scorciatoia consolatoria ma un senso di durata, di permanenza in un altrove.

Subito dopo inizia una sequenza di variazioni: la campagna effonde vapori, il vento è diventato una brezzolina piacevole. La musica dice grazie al cielo, i contadini tornano a popolare l’aia. E la musica finisce su una riposante terza maggiore, cantata dall’orchestra, come quando il sacerdote dice andate in pace.

Il concerto per pianoforte poi fu smagliante. Fino ad allora la norma prevedeva a che l’orchestra suonasse prima e il pianoforte poi. Beethoven invece capovolse i rapporti. Iniziò col pianoforte. E poi l’orchestra gli rispose inaugurando un vero e proprio dialogo. Ma il solista non era mai esattamente un solista, ma una voce che si misurava con l’altra, di cui aveva bisogno. La musica stava mettendo in scena una discussione come se in quel teatro ci fossero personaggi e non degli strumenti. Non solo il racconto di una storia, ma un dialogo a due voci, un dialogo che aveva tutta la credibilità del reale. Nell’adagio poi questa caratteristica sembrò ancora più evidente. Era una sorta di contesa, quasi un litigio. Il pianoforte sussurrava e l’orchestra urlava. Sembrava raccogliersi in se stesso, quasi volesse sottrarsi a quegli sbocchi violenti e selvaggi, quasi non volesse rispondere se non con la dolcezza. Quel pianoforte era in cerca di intimità ma proprio con la forza della mitezza convinceva l’orchestra sedando i bollenti spiriti degli archi che alla fine si arrendevano, smussando poco a poco i toni battaglieri e rintanandosi in un pianissimo, sussurrato e prossimo al silenzio, come se avessero deciso di ascoltarne le ragioni, accovacciati lì accanto.

Quello, allora, non era il titano appassionato, conquistato dall’eroismo napoleonico, neppure il musicista folle e intrattabile isolato nei suoi meandri segreti, no: quello era un uomo fragile che si metteva a nudo e chiedeva agli altri di essere compreso perché sapeva anche essere dolce. Non c’era scritto qualcosa del genere nel testamento di Heiligenstadt? «Mi sento perso e ignorato in mezzo agli uomini ma quanto amerei la loro compagnia». Erano le stesse confidenze pudiche ma nitide che aveva sussurrato il pianoforte.

Ma la sorpresa sarebbe arrivata alla fine. Dopo una potente esecuzione della Quinta, la sinfonia detta del destino, nella Fantasia corale Beethoven fermò l’orchestra per un’entrata sbagliata dei clarinetti. E cosa disse? «Basta ricominciamo da capo». Non tutto il concerto ma quel brano che, dopo oltre quattro ore, chiuse una serata che sarebbe rimasta nella storia.

di Saverio Simonelli