L'attesa
L’inizio del tempo

Un’idea sobria
di compimento

Felice Casorati, «L’attesa» (1918-1919)
15 dicembre 2020

No, avvento non significa attesa. L’equivoco in cui cadono i bambini, quando si dialoga con loro preparando il Natale, è però significativo. All’avvento, infatti, può — ci spingiamo a dire “deve” — corrispondere un’attesa, ma questo non è automatico. Ci sono attese cui non corrisponde alcuna venuta e ci sono venute assai poco attese. Non si tratta di giochi di parole, specie dall’interno dell’oscurità in cui il mondo è avvolto. Collettivi, oltre che personali, sono i drammi e le tensioni che invocherebbero una venuta, una svolta. L’arrivo di un vaccino, il ritorno di una persona cara, un sistema sanitario accessibile ai poveri, il ritorno a scuola dei nostri ragazzi, la liberazione da violenze domestiche e abusi di ogni sorta, la guarigione: di questo e di molto altro c’è attesa. Di contatto fisico, di muoversi liberamente, di cambiamento, di sposarsi, di un figlio, di nuove vie, di modelli alternativi di sviluppo, di giustizia, della stessa morte.

Può tuttavia spegnersi l’attesa ed è più comune e drammatico di quanto solitamente confessiamo. Accade quando vince la sensazione che nulla avverrà, che niente di decisivo arriverà, che cioè non esista avvento. La Bibbia ospita questo sospetto, fa spazio alla disillusione: «L’uomo si affatica e tribola per tutta una vita. Ma che cosa ci guadagna? Passa una generazione e ne viene un’altra, ma il mondo resta sempre lo stesso. (…) Tutto ciò che è già avvenuto accadrà ancora; tutto ciò che è successo in passato succederà anche in futuro. Non c'è niente di nuovo sotto il sole» (Qoelet 1, 3-4.9). Molti battezzati sembrano aver smesso di attendere, quasi non avvertendone lo scandalo. Al contrario, ostentano rassegnazione e cinismo come forme legittime di resistenza, espressione di realismo e di un saper vivere. Nel «non c’è nulla da fare», se non da aggredire o difendersi, si manifesta l’affievolirsi della fede, la negazione dell’avvento. Tra questi battezzati siamo certo anche noi. Non sempre, forse, ma il necessario per non pensar subito a qualcun altro. Che cosa ci è capitato? Sembra una malattia più diffusa tra i ricchi che tra i poveri, una malinconia che avvolge Chiese dalla grande storia e società costellate di testimonianze cristiane.

Un aiuto a interpretare ci verrà ancora a lungo dalle più lucide voci del secolo scorso, a conferma della coscienza biblica che i veri profeti si riconoscano solo ex post, quando la loro parola anticipatrice è confermata dalla storia. Se ciò avviene — questo è decisivo — non è troppo tardi per ascoltarli. Al contrario, il loro carattere di precursori ne impone ora l’ascolto, non avendo più la loro voce alcuna traccia di ambiguità, non potendo esser più tacciata di secondi fini. Dalla statura di chi ci ha preceduto in vicende che solo ora si dipanano dipende molto della possibilità di essere all’altezza del presente. C’è un avvento che meriti attesa? L’anno liturgico può ancora intervenire sulla vita, ridisegnarne i contorni? C’è legame reale tra ciò in cui potremmo — e a volte non vogliamo — sperare e la celebrazione del Natale?

Il grande Karl Barth, ad esempio, colse come problematico un modo diffuso di tematizzare nella Chiesa il compimento. In un sermone del Natale 1930 indicava il problema teologico dell’affievolirsi dell’attesa: «I responsabili della proclamazione cristiana del compimento, in buona parte dei casi, hanno parlato del compimento come se, con la comparsa di Cristo, la promessa avesse cessato di esser promessa, come se non ci fossero più né tempo, né attesa. “La promessa adempiuta” è stato inteso: ciò che la promessa semplicemente prometteva, ore c’è e può venire posseduto e goduto dall’uomo o almeno da certi uomini, cioè dai cristiani». Barth vide qui lo svuotarsi borghese del Natale, coincidente con il disinnescarsi della tensione escatologica. Il punto, però, è la smentita storica — oltre che teologica — di un simile approccio: «Contro quel modo più recente di intendere il concetto di compimento lotta una concezione onesta della realtà delle cose umane, come pure un’efficace conoscenza del contenuto originale e proprio di questo concetto. Non è vero, appunto, che la comparsa di Cristo sia stata in qualche senso l’eliminazione della promessa e che abbia imposto la fermata alla corrente del tempo, in qualsiasi tempo e in qualsivoglia essere umano. Affermare che, con la comparsa di Cristo, il regno di Dio sia iniziato e che abbia proprio nella Chiesa o nella cristianità la sua piena sussistenza presente è un’esaltata fantasticheria retrospettiva. La storia del mondo, sia prima sia dopo Cristo, fu una storia oscura, in cui non c’è neanche un momento nel quale l’uomo abbia trovato realmente una patria».

Sono affermazioni che non possono non provocarci a verificare se lo iato tra fede e vita e il silenzioso esodo — prima mentale, poi fisico — di tanti fedeli, non siano esito di un’ubriacatura, come ogni ebbrezza finita in malessere e disillusione. Esito di una storia autointerpretatasi e autopropostasi come gloriosa, nel muscolare confronto con potenze mondane cui resistere come con le stesse armi e forze proprie. Il Novecento è la fine di ogni pretesa societas perfecta, di ogni escatologia realizzata: possiamo stupirci oggi della disillusione, se siamo tanto lenti a spogliarci delle vesti di gloria? Il re è nudo. «Della fondazione di un’isola di beati in mezzo al flusso del tempo, di un modo di comprendere la comparsa del Cristo diverso da quello escatologico, non si trovano tracce nel Nuovo Testamento, ma se ne troveranno moltissime del fatto che coloro cui dobbiamo questa testimonianza normativa sul Cristo abbiano avuto consapevolezza d’essere solidali con le figure dell’Antico Testamento, da Abramo a Davide, fino ai profeti, dunque con gli iniziatori della promessa che si vuol pretendere superata».

Alla speranza della Chiesa antica, caratterizzata per Barth «da un concetto sobrio di compimento», Romano Guardini, negli stessi drammatici anni della vicenda europea, già coglieva una diffusa obiezione. «Ognuno di noi deve sperimentare l’attesa, ognuno l’arrivo, perché gliene nasca salvezza. Quando udiamo così tale notizia, forse ci viene il pensiero: quel che è importante nella vita devo essere io a trovarlo! Deve scaturire dal mio stesso impegnarmi e lottare. Così anche la salvezza deve essere necessariamente cosa della mia serietà e del mio sforzo. Che significato deve avervi l’attendere Uno che viene da altrove?». Quasi un secolo dopo, sembra non esserci pedagogia che non parli questo linguaggio, caricando ciascuno del proprio destino. Vorrebbe funzionare come incentivo all’assunzione di responsabilità, alla fiducia nel proprio talento, ma la corsa alla riuscita, che le diseguaglianze rendono lotta per la sopravvivenza, si fa principio di discriminazione e di inimicizia, guerra fra i poveri, sconforto nei giovani. Guardini smascherò l’illusione, cogliendone l’aspetto di verità solo parziale e descrivendo una struttura della realtà dove l’impegno è sempre corrispondenza a ciò che dalla vita viene a noi: «Molte cose, importanti, decisive, poggiano su combinazioni e incontri che non ho disposti io stesso, che non ho potuto far emergere con l’energia mia propria. Sono venuti, mi si sono offerti. Anche la nostra salvezza poggia su una venuta. Gli umani non hanno potuto escogitare né produrre da sé Colui che la opera; Egli è venuto presso di loro dal mistero della libertà divina». Per Guardini tale legge dell’incontro apre lo spazio dell’intimità, quello più propriamente umano, che non esiste senza reciproco avvento e quindi senza attesa.

Dietrich Bonhoeffer, nelle lettere dal carcere rilanciò e approfondì tutto questo con una metafora potente: «Attendere è un’arte che il nostro tempo impaziente ha dimenticato. Esso vuol staccare il frutto maturo non appena germoglia, ma gli occhi ingordi vengono soltanto illusi, perché un frutto apparentemente così prezioso è dentro ancora verde e mani prive di rispetto gettano via senza gratitudine ciò che li ha delusi. (…) Nel mondo dobbiamo attendere le cose più grandi, più profonde, più delicate, e questo non avviene in modo tempestoso, ma secondo la legge divina della germinazione, della crescita e dello sviluppo».

È il segreto di un martire, che solo in quest’orizzonte escatologico può esporre la propria vita alla morte, come si pone un seme nella terra. E con Bonhoeffer cogliamo che qui si tratta — oggi si direbbe — di qualità della vita, non di astratte verità: «Chi non conosce la necessità di lottare con le domande più profonde della vita, della sua vita, e nell’attesa non tiene aperti gli occhi con desiderio finché la verità non gli si riveli, costui non può figurarsi nulla della magnificenza di quel momento in cui risplenderà la chiarezza e chi vuole ambire all’amicizia e all’amore di un altro, senza attendere che la sua anima si apra all’altra fino ad averne accesso, a costui rimarrà eternamente nascosta la profonda benedizione della vita che si svolge tra due anime».

Si chiama “perdizione” un mondo senza attesa. Ci siamo passati, forse lo sperimentiamo ancora, ma ci è possibile combattere le tenebre e attendere il Salvatore. Un ascolto onesto della contemporaneità e delle sue voci profetiche non può non chiedere alla Chiesa una maggiore sobrietà, che rappresenti il contrario di una rinuncia: il ritrovamento, piuttosto, del suo orientamento originario e strutturale al futuro di Dio. Fratelli tutti: più che mai ci è dato di avvertire le connessioni di ognuno con l’intero, l’appartenenza reciproca di Chiesa e umanità, il grido comune di chi non ha smesso di attendere e l’inferno di chi non spera più. «Questo è il senso per noi dell’Antico Testamento, in forza del quale esso è una cosa sola con il Nuovo. Ciò che distingue quest’ultimo dall’Antico è la comparsa del Cristo, cioè il compiersi, il chiarirsi, il perfezionarsi e perciò anche l’adempiersi della promessa. (…) Nella fede in Cristo come “promessa adempiuta” non comincia l’eternità, ma, per chiunque obbedisca a questa fede, inizia il tempo, infinitamente prezioso in ogni suo minuto, perché in ogni minuto viene presa una decisione in vista dell’ultimo futuro. (…) Non vi è nessun compimento più serio e più genuino del nostro tempo che quando noi lasceremo che la forza della vita futura, al di là di ogni tempo, sia la forza della vita terrena, nel tempo». Potrebbe predicare oggi Karl Barth. E noi averne un sussulto.

di Sergio Massironi