Quattro pagine - Approfondimenti di cultura, società, scienze e arte

Tradurre in concretezza
un immaginario narrativo

Un esempio di «Quadro nel quadro»
15 dicembre 2020

A colloquio con lo scenografo Giancarlo Basili


Discreto, schivo, innamorato del suo lavoro di cui parla con semplicità, ma con l’intensità di una passione rimasta intatta negli anni, Giancarlo Basili è un grande artista prima di essere un grande scenografo, realista e visionario allo stesso tempo. Un’arte dialogante la sua che ha bisogno di mente, di cuore, di mani e dalla forte componente poetica, perché realizzare una scenografia vuol dire mettere insieme paesaggi, architetture, arredi cioè inventare mondi dove far vivere una storia. Un’arte raffinatissima quella di Basili cresciuta nello studio e nell’amore per la tradizione pittorica italiana e dove convivono in armonia creatività e concretezza.

Generoso nel trasmettere ciò che sa ai più giovani, Basili è un maestro che al suo gruppo di artigiani scenografi — pittori, falegnami, decoratori, muratori, stuccatori e così via — chiede di partecipare non solo di eseguire. La capacità di fare squadra, una visione totale dell’arte scenica, un grandissimo talento e una straordinaria sensibilità artistica gli hanno permesso di realizzare tanti mondi interpretando con compiutezza i progetti di registi diversi, i più grandi nomi del teatro e del cinema italiano.

Il primo ricordo della tua vita?

È un rumore, quello che facevano i miei scarponcini. Quando iniziai a frequentare la prima media, dalla campagna della Val d’Aso dove vivevo percorrevo la salita per arrivare alla scuola che si trovava nel paese di Montefiore. Eravamo un gruppetto che veniva dalla campagna e i nostri scarponcini con le bullette, quei piccoli chiodi a testa larga che proteggevano le suole dall’usura, facevano rumore. «Arrivano i contadini» era la frase che ogni mattina accoglieva il nostro arrivo. Ricordo che a quelle parole attraversavamo in fretta l’aula e prendevamo posto ai nostri banchi, in ultima fila. Quel rumore fu la scoperta della disuguaglianza e dell’arroganza. C’era allora una rigida distinzione sociale e non toccava solo noi bambini. Ho negli occhi un’immagine: la domenica mattina — io e mia sorella Vera ancora molto piccoli — mio padre Patrizio e mia madre Nannina che sulla Vespa andavano alla messa. Quella delle 9.30 destinata ai campagnoli perché quella delle 11.30 era riservata ai paesani. Una distinzione non detta, ma rigida e rispettata.

Quel rumore era una sofferenza?

Direi un piccolo, quotidiano dispiacere, ma soprattutto mi risuonava dentro come il segno di una distanza inconcepibile tra compagni di scuola, destinati a condividere non solo tante ore della giornata, ma gli anni dell’infanzia. Sofferenza no, perché potevano dire quello che volevano ma io credevo alle parole che mio padre serenamente mi ripeteva e che nella mia vita avrebbero avuto la sacralità di un imperativo morale: «Figlio, ricordati che siamo tutti uguali». Sono cresciuto in questa convinzione e nello spirito di accoglienza, di solidarietà, di fratellanza che ne deriva. Oggi è una grande sofferenza, a cui mi ribello con tutte le mie forze, sentir parlare di razzismo, sopraffazioni, ingiustizie, di violenza dell’uomo sull’uomo.

Quanto sono stati importanti i tuoi genitori?

Tanto. Il rumore delle suole chiodate, di cui ti parlavo prima, è forse il simbolo della durezza di vivere di chi lavorava la terra, ma anche della grande dignità e moralità con cui si affrontava la vita. Ero bravo a scuola e, prima che finissero le medie, l’insegnante di disegno parlò ai miei genitori di «sensibilità artistica» e aggiunse «vostro figlio deve continuare a studiare», perché si era accorta della mia passione. «Chi starà dietro alla terra?» disse mio padre mentre eravamo seduti a tavola, ma la domanda la rivolgeva più che altro a sé stesso. Allora c’era una grande relazione tra il mondo della scuola e la famiglia e i miei seguirono l’indicazione e mi iscrissero all’Istituto d’arte di Fermo. Poi a 17 anni mi trasferii a Bologna per studiare all’Accademia di Belle Arti. Non mi ero mai allontanato dal paese, non avevo mai preso un treno e alla stazione vidi i miei genitori per la prima volta piangere. Ci sarebbe stata una seconda volta, che poi ti racconterò.

Come fu l’esperienza di Bologna e dell’Accademia?

Ricordo che appena arrivato mi si strinse il cuore. Lontano dalla mia famiglia, dalla mia casa, dal mio paese. Ad accogliermi una struttura che ospitava studenti, Villa Pallavicini, fondata da don Giulio Salmi, un sacerdote che durante la guerra era riuscito, a rischio della vita, a salvare molti prigionieri rastrellati dai tedeschi e destinati ai campi di concentramento. Quel senso iniziale di spaesamento passò non appena iniziai a frequentare i corsi all’Accademia, quel futuro che tanto avevo sognato. E poi mi ambientai subito: Bologna allora era allegra, ricca di vita e di fervore politico, con tanta sperimentazione artistica, una città ottimamente amministrata dove era bello vivere.

Furono difficili gli inizi?

A ripensarci oggi ti rispondo sì, molto, ma l’entusiasmo e la voglia di fare mi facevano andare avanti senza fermarmi troppo a pensare. Preso il diploma dovetti lasciare il Convitto e l’alloggio più economico che trovai fu una stanza con l’uso di cucina. Ricordo che consumavo i pasti su un tavolino di formica poggiato al muro e in dotazione avevo un piatto piano, uno fondo, un bicchiere e un paio di pentole. Appena uscito dall’Accademia il nostro insegnante di Scenografia Enrico Manelli mi scelse come assistente mentre Paolo Bassi, direttore degli allestimenti scenici del Teatro Comunale, mi portava in palcoscenico. Nascosto dietro le quinte, mentre osservavo ogni particolare di quel meraviglioso spazio scenico, cominciai a capire davvero il mio lavoro. Furono anni di tanto teatro, il cinema arrivò solo più tardi. Nel 1979 insieme a un amico avevo aperto un laboratorio per la progettazione e la realizzazione di scenografie in un capannone di mille metri quadri. Un giorno bussò alla porta Marco Ferreri. La mia vita professionale nel cinema iniziò così.

Intanto ti dedicavi anche a dipingere.

«Quadro nel quadro» chiamavo i miei dipinti dove partivo sempre da un frammento di un’opera storica che amavo. E proprio una mostra delle mie opere che si tenne a Montefiore fu l’occasione per conoscere mia moglie. Eravamo nel Polo Museale San Francesco, uno degli orgogli cittadini, quasi costruito attorno allo splendido trittico di Carlo Crivelli, e accanto alla mia c’era una mostra dedicata ad Adolfo De Carolis che Cinzia teneva aperta. In attesa di visitatori era seduta in un canto e lavorava all’uncinetto. Mi colpì quel gesto antico delle sue mani. Fu un amore ostacolato da suo padre: io ero artista e squattrinato, uno sbagliato insomma. Per quattro anni ci vedemmo di nascosto, tornavo a casa due fine settimana al mese. Quasi quarant’anni di matrimonio e due splendidi figli, Francesco e Giulia. Mio suocero cambiò idea su di me ed è stato una delle persone a cui più ho voluto bene nella vita.

Nei tuoi dipinti c’è la stessa magia di colori delle tue scenografie: una tavolozza dove si affacciano toni forti, squillanti, ma dove prevalgono le tinte tenui, pastellate, rarefatte. Penso ai tuoi grigi struggenti, capaci come sono di creare quelle atmosfere polverose e malinconiche di una vita quotidiana povera, difficile.

Ho una regola, vado per sottrazione. Non mi piace la ridondanza né marcare per far emergere la mano dello scenografo. Amo l’essenzialità e il rigore. Il mio è quasi un dialogo con i luoghi e con gli oggetti; ascolto quello che hanno da dire e cerco di tradurre in concretezza un immaginario narrativo.

La scenografia è una componente fondamentale del cinema che è una grande impresa di gruppo, anche se questo aspetto viene messo in ombra dal “primato” del regista. Osserva Gianni Canova, che nel 2001 ha curato una bella mostra a te dedicata, che si tratta di un’arte che vive su una contraddizione: mentre l’architetto costruisce per far durare, lo scenografo costruisce qualcosa che durerà appena il tempo di lasciare traccia su una pellicola.

Sì, è vero, ma forse è proprio qui il suo fascino. Noi costruiamo mondi, diamo spazio alle emozioni e agli incanti delle parole. Ma le storie sono il racconto della vita e i libri hanno sempre un’ultima pagina.

Come si scelgono nel cinema gli spazi di questo universo virtuale?

In due modi; o si costruiscono spazi o si utilizzano luoghi reali adattandoli alle necessità e al tempo della storia. In questo caso procediamo con i sopralluoghi, cioè si gira l’Italia fino a che si trova quello che si ha in mente. Ricordo le ricerche per la piscina di Palombella rossa di Moretti — ne vedemmo e ne scartammo una cinquantina — o ancora i viaggi in macchina per trovare l’immenso campo di grano di Io non ho paura di Salvatores. La cosa che amo di più è far rivivere gli spazi abbandonati per creare un mondo che non esiste. È accaduto in molti miei lavori, l’ultimo è il set de L’amica geniale dove abbiamo costruito un quartiere della Napoli anni Cinquanta in una vecchia fabbrica dismessa.

Usi spesso il verbo “ricordare” e in modo carezzevole, gentile. Quanto è importante per te la memoria?

Non ho lavorato la terra come faceva mio padre, ma la terra me la sono sempre portata dentro, nel mio mondo di affetti, di luoghi, di esperienze. Quando aprii il Laboratorio decidemmo con mia moglie di acquistare una casa. Avevamo pochissimi soldi e scegliemmo una casa diroccata circondata però da una bella campagna. I miei genitori rimasero così sconcertati che per la delusione quasi si misero a piangere. Loro videro quello che era, una casa in rovina, noi vedevamo la casa dei nostri sogni, quella che con il tempo sarebbe diventata. Quando accendo il fuoco penso a mia madre, quando mi occupo dell’orto penso a mio padre. E la memoria è presente sempre nel mio lavoro. Ti faccio un esempio: nel padiglione italiano della Expo di Shangai del 2010, nella sala dedicata alla nostra eccellenza agroalimentare, un olivo si alza verso un cielo rovesciato, fatto non di azzurro e di nuvole, ma di un grande campo di grano e papaveri. E poi ho creato il festival Sinfonie di Cinema, che si svolge ogni anno nel mese di agosto con proiezioni di film, incontri, dibattiti per portare un po’ di cinema nella mia Montefiore.

Hai un sogno, un progetto a cui tieni particolarmente?

Sì e anche questo fa parte della memoria. Torno più spesso che posso a Montefiore dove ho la fortuna di avere ancora mia madre. Sono legatissimo a questo che è uno dei tanti meravigliosi borghi marchigiani nati tra «lieti colli e spaziosi campi» come direbbe Leopardi. Vorrei ridare vita al vecchio cinema parrocchiale dove ho trascorso tanta parte dell’infanzia. Le sedie di legno, le noccioline e i bruscolini, il fumo che riempiva la sala e gli occhi incollati allo schermo. Entravamo all’apertura e uscivamo a sera tardi senza stancarci di rivedere lo stesso film. Il mio sogno è restituire ai bambini e ai ragazzi di oggi quella magia.

di Francesca Romana de’ Angelis