L’Avvento e quel sì a Dio

Quando la poesia
trasmette grandezza

Clemente Rebora
15 dicembre 2020

Dall’immagine tesa
vigilo l’istante
con imminenza di attesa —
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono —
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno.
Ma deve venire,
verrà, se resisto
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto.
Verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.

(Dall’immagine tesa, Clemente Rebora)


Cadere nell’errore di commentare le poesie è un rischio sempre in agguato. Faccio volentieri due passi fuori dall’ufficio oggetti smarriti, per unirmi agli amici che, nella stanza accanto ragioneranno di avvento e attesa. Davvero è un oggetto smarrito la poesia di Clemente Rebora dal titolo Dall’immagine tesa? Verrebbe da sperare di no. Intanto vi chiedo di leggerla e di lasciarle fare il suo lavoro. Che non è poco.

Fin da quando sedevamo sui banchi di scuola infatti si è fatto il possibile per farci odiare ciò che avevamo davanti. Le poesie per esempio. Il bello è che la “colpa” non era di nessuno. Non era di noi bambini che sfuggivamo per “mestiere d’infanzia” a ogni cosa insegnata perché sperimentare era più urgente di apprendere. Non lo era spesso nemmeno degli insegnanti, onestamente indaffarati nell’introdurci a qualcosa di grande in un tempo nel quale, di grandezza, ancora non avevamo sete o non sapevamo riconoscerla.

Trasmettere la grandezza è il mestiere più difficile, fatica Gesù Cristo a inchiodarci in testa il dono dell’esser qua, su questa Terra. Perché non dovrebbe faticare un comune essere umano? Sono rimaste così le poesie, sole quanto noi e chi ce le insegnava. Anche loro, come tutti noi, in attesa. Un avvento inconsapevole conosciuto in calzoni corti.

Quello che sta accadendo al pianeta rende questo Natale diverso dagli altri. Lo si dice ogni Natale, lo si è detto così tante volte per motivi così futili che adesso che è vero fatichiamo ad ammetterlo. E se non ci girassimo intorno? La morte. Attorno a noi la morte sta prendendosi tantissime di persone. Questo è il motivo per il quale questo Natale è diverso, questo è il motivo per il quale al suo argomento, quello della morte, manca il nostro. Cosa risponderle?

La risposta è già in atto, in ciascuno di noi. La pena che proviamo per gli altri, per il dramma degli sconosciuti, è la lancetta che indica il limite di velocità della morte, il punto oltre il quale i suoi argomenti non reggono. Vuol farci credere di esistere e usa la carta più forte che ha: “sei solo” dice. Non c’è nessuno a raccogliere la pena tua e di chi ami, niente vi salverà. Natale è la confutazione perfetta di questa ipotesi. La più bella perché trasforma l’apparente inerzia dell’attesa in una corsa invisibile, tutta per noi. Lo sentiamo arrivare quel qualcuno che vince la morte (con imminenza di attesa dice Rebora). Quando senti qualcosa prima di averla davanti, la stai toccando con una parte di te che è più affidabile delle dita di san Tommaso, che infila le proprie convinzioni nelle ferite giuste, quelle che nascono aperte per restare aperte.

La ferita è la vita che reclami per chi ami. Una vita che vinca la morte ogni giorno, non solo quando essa reclama biologicamente il malloppo. Oltre alla morte che abbiamo davanti, negli ospedali e ovunque essa recida un’esistenza ce n’è un’altra, più subdola. La morte nelle case, quella del vedere chi amiamo sfinito dai nostri limiti, dalle nostre incapacità o magari lontani da ciò che volevano fare per vivere. Quante case si svuotano, quante coppie rinunciano, quanti bambini non nascono? Questa è l’altra morte. Le tue mani sceme e senza forza non riescono a contenere e a dare direzione al tuo amore per chi hai davanti, perché la vita ha mareggiate che annegano quando ormai credi di aver raggiunto la “secca”. “Si tocca?” chiede un bambino nello spingersi al largo. “Si tocca?” domandano gli innamorati per fidarsi di chi hanno davanti. Si tocca per sempre, dice il Natale. Il bambino si fida, e inizia a nuotare arrivando dove in realtà non si tocca più. Lo fa perché sa che dietro di lui un padre vigila, più forte del mare. Più calmo della calma del mare.

Le coppie, le famiglie e tutti gli altri esseri umani, crescendo, continuano a domandarsi se si tocchi, ma ad avere meno forza di accettare l’attesa di quella risposta. Benché sia un sì. Soprattutto non hanno la forza di vedere quanta vita, quanti gesti abbiamo attorno a noi durante quella che sembra un’attesa. L’avvento non è un’attesa inerte bensì il predisporsi, nella selva dei dubbi, dei dolori e delle ingiustizie, non solo a trovare in quel “sì” ma soprattutto la forza di raggiungerlo. Di attenderlo, che non vuol dire sedersi, ma aprire gli occhi ai suoni, le orecchie ai gesti. Scompigliare i sensi.

«Nell’ombra accesa spio il campanello» dice Rebora. La debolezza dell’ombra è la sensibilità alla luce, essa — la luce — nasce per il buio. E chi di noi ha notizie dal campanello attraverso gli occhi? Dio è il suono che i nostri occhi possono vedere.

Il suo è un suono comune e unico allo stesso tempo, a lui capitano le sventure nostre. Perde un figlio sulla croce. Così come noi perdiamo chi amiamo. Eppure, nel conto della morte, qualcosa non torna. Natale è quel qualcosa che non torna. Per quello che ci dice e per il modo in cui lo fa. Natale non parla del futuro ma di ieri e da ieri arriva fino a stasera. E da lì a domattina. Dice che per una volta nella vita, in mare comanda un bambino e un padre manda suo figlio a dirci che si tocca.

E che si tocca già adesso mentre crediamo che non succeda nulla e scambiamo l’attesa con l’inerzia. Che non solo i morti ma anche i vivi non moriranno ed il loro limite umano avrà ciò che in vita non sempre riesce a raggiungere; un perdono che vale per sempre. Qualcuno che ti vede mentre aspetti. E resisti, a sbocciare non visto.

… verrà, se resisto
a sbocciare non visto…
(…)
… verrà quasi perdono
di quanto fa morire…

di Cristiano Governa