Splendide pagine inedite di Richard Wright

L’ottavo uomo

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15 dicembre 2020

Capire un Paese complesso e complicato come gli Stati Uniti non è affatto facile. Serve studiare, ascoltare, indagare... Oppure si può prendere in mano un piccolo libro e perdercisi dentro. Finora inedito in Italia, Otto uomini (Racconti edizioni 2020, traduzione di Emanuele Giammarco) di Richard Wright offre — con la cura, la precisione e la profondità propria dell’ottima letteratura — un panorama prezioso sulla questione razziale. Otto racconti e otto uomini neri, molto diversi tra loro, che sanno perfettamente che «i neri perdono sempre», uomini che hanno (quasi) finito per interiorizzare quel «golfo fra me e loro». Giovani e adulti, disperati, fiduciosi, colpevoli e innocenti, con senno e privi di senno — perché il razzismo ha, tra i suoi effetti di lungo periodo, anche quello di minare irreparabilmente la salute con forme gravissime di disagio mentale. Dopo sette voci, tasselli comunque indispensabili per fornire il quadro d’insieme, è però l’ottavo uomo a tirare le fila, per dir così, nell’ultimo racconto. Quello in cui è lo stesso Wright (1908-1960) a prendere la parola in pagine autobiografiche: «Cominciai a pormi delle domande». Domande su «la nostra America troppo giovane e troppo nuova, vigorosa perché sola, aggressiva perché spaventata, [che] insiste nel vedere il mondo in termini di buono e cattivo, santo e dannato, alto e basso, bianco e nero; la nostra America spaventata dai fatti, dalla storia, dai processi, dalle necessità. [Che] accoglie la scorciatoia per cui si condanna chi non si riesce a comprendere, si emargina chi ha un aspetto diverso; e [che] ripulisce la propria coscienza ammantandosi di una giustizia che si è cucita addosso da sé». Soprattutto quel che Wright cerca di fare è saltare il fossato («il golfo», lo chiama lui) tra noi e loro. «Sto forse condannando la mia terra natia? No; perché io, pure, condivido questi difetti caratteriali».

di Giulia Galeotti