«Ore disperate. L’ultimo processo di Harper Lee» di Casey Cep

Il reverendo, l’avvocato
e la scrittrice

Particolare dalla copertina
15 dicembre 2020

È sorprendente Ore disperate. L’ultimo processo di Harper Lee (Roma, minimum fax, 2020, traduzione di Sara Bilotti, pagine 393, euro 19) di Casey Cep, giornalista del «The New Yorker», con una laurea a Harvard e un dottorato in teologia a Oxford. Lo è perché racconta la storia (vera) dello spietato reverendo afroamericano Willie Maxwell, accusato di aver ucciso cinque membri della sua famiglia per incassare i soldi delle polizze assicurative. E, nel farlo, nel raccontarlo appunto, getta lo sguardo sui pregiudizi razziali dell’Alabama degli anni Settanta, insieme a certe forme di «primitivismo», come la fede nel sovrannaturale e nella giustizia privata: Maxwell, più volte processato non verrà mai incriminato, anzi, da presunto assassino, diventa vittima, quando, Robert Burns — esasperato, al pari di tutta la comunità di Alexander City, dal susseguirsi di crimini e dalle voci sui riti vudù praticati dal reverendo — gli spara in fronte davanti a trecento testimoni.

La seconda ragione per cui Ore disperate è sorprendente riguarda proprio i colpi di scena, dovuti al fatto che l’avvocato liberal e pro diritti civili Tom Radney fa assolvere, da una giuria rigorosamente bianca, l’assassino del reverendo, pur avendo in precedenza assunto la difesa dello stesso Maxwell.

Infine, c’è un terzo motivo per cui non si può fare a meno dell’opera di Cep, ed è il più importante: il libro non ricostruisce semplicemente un caso di cronaca, ma porta a galla la vicenda processuale e criminale che la scrittrice premio Pulitzer Harper Lee aveva scoperto e su cui, a circa vent’anni da Il buio oltre la siepe (1960), stava, invano, progettando di scrivere. Ore disperate rivela, dunque, tutto il lavoro incompiuto di Lee, che, rintanatasi in un assordante silenzio, avrebbe voluto dar vita al suo personale romanzo di non fiction, a un’opera di true crime, dopo l’aiuto prestato all’amico d’infanzia Truman Capote nella ricerca del materiale per il romanzo-verità A sangue freddo (1965).

Sono tre, in particolare, le sezioni in cui il recente volume viene suddiviso (non a caso: «Il reverendo», «L’avvocato» e «La scrittrice»); tre parti che ben dialogano tra loro e che mostrano quanto Cep sia brava nel mettere insieme molteplici fonti ufficiali, documenti, interviste e articoli, dando vita a un’opera prima a cui va il titolo di bestseller da parte del «New York Times».

Tuttavia, a tale perfezione stilistica fa da contraltare l’imperfezione del mondo narrato: ci sono le già citate storture della società, attraversata da radicate discriminazioni (c’era il Ku Klux Klan e «l’Alabama aveva visto il martirio di così tanta gente») e ci sono, soprattutto, i tormenti di Harper Lee, la solitudine di una donna di fronte al mondo e al foglio bianco. Nell’opera, quindi, affiancato all’inedita cronaca, c’è l’umanissimo privato dell’autrice, ricordata per Atticus Finch, Scout e una storia «universale» sull’innocenza perduta. A dimostrarlo, le avvincenti pagine in cui si passano in rassegna la vita di Lee, l’amicizia con Capote che, «verde d’invidia più di tutti gli alberi di pino dello Stato», per un certo tempo s’allontana, gli aneddoti sulle telefonate con Gregory Peck (interprete da Oscar della trasposizione cinematografica de Il buio oltre la siepe) e, ancora, i suoi ultimi anni, preceduti, nel 2015, dalla pubblicazione di Va’, metti una sentinella (prima bozza del Buio) e dalla decisione di non portare a termine il libro da intitolare Il reverendo. Scelta dovuta, molto probabilmente, alle pressioni subite, alla paura di fallire e alla ricerca sfrenata della perfezione.

Ore disperate, oggi, diventa l’anello di congiunzione tra Il buio oltre la siepe e A sangue freddo. Il motivo? Partendo dalla storia su cui Lee stava lavorando prima di accantonarla, si affrontano gli stessi temi del Buio (razzismo, pregiudizi verso il diverso, idea personale di giustizia); mentre, come A sangue freddo, che narra l’omicidio della famiglia Clutter per mano di due malviventi nel Kansas del 1959, ha lo stile del romanzo-inchiesta.

Poi, leggendo il volume di Cep, non solo le opere di Harper Lee e Truman Capote rivivono, ma rivive pure quel fuoco sacro che ha accomunato i due autori, insieme al sogno di diventare scrittori a tutti i costi (Lee, a sei settimane dalla laurea, lascia giurisprudenza e il Sud per Manhattan; Capote, che il Sud pure lui ben presto abbandona, s’impiega come fattorino al «New Yorker», dove «camminava tra le stanze (…) portando matite e indossando un mantello: la prima volta che il caporedattore, Harold Ross, [lo] vide, chiese: «E questo chi è?». La risposta […] fu: «Un cronista»). Ecco che Ore disperate, come si diceva, oltre a incentrarsi sui fatti a oggetto del libro mancato della scrittrice, restituisce, persino, la magia: il lettore, con Lee e Capote, può entrare nella loro vecchia casa sull’albero, lì dove nacque «la gioia (…) di cominciare a scrivere, di volerlo fare per sempre».

In ultimo, sullo sfondo di Ore disperate, emerge tutta la vastità del profondo Sud americano. C’è la provincia, Monroeville, da cui Capote e Lee provengono, dove quest’ultima trascorre la fine della sua vita ed è, non lontano da tutti i suoi personaggi, sepolta. Il Sud diventa protagonista, terreno d’ispirazione per la letteratura. Quella zona, per parafrasare Capote, piena di contraddizioni, che nel resto del mondo «viene definita laggiù».

di Enrica Riera